FAQs – Cosa fa un respeaker?

di Alessandra Checcarelli

Un respeaker è un professionista che produce testo scritto o sottotitoli in tempo reale a partire da un testo orale tramite la tecnica del respeaking: ascolta l’audio originale e contemporaneamente lo “ripete”, includendo la punteggiatura, a un software di riconoscimento del parlato, il quale trasforma l’input vocale in testo o sottotitoli sullo schermo con un ritardo minimo.
Il respeaking richiede al professionista notevoli abilità di multitasking: il respeaker deve ricordare la frase precedente mentre ascolta la frase successiva, analizza e rielabora ciò che è stato appena detto, individua la punteggiatura e i cambi di interlocutore, e infine rielabora e/o ripete il tutto per produrre il testo. Inoltre il respeaker deve monitorare sempre ciò che il software trascrive e correggere eventuali errori di riconoscimento del parlato, assicurandosi che il testo venga trasmesso correttamente e sia chiaro e leggibile per lo spettatore.
Come nell’interpretazione simultanea, il respeaker utilizza la memoria a breve termine (memoria di lavoro) per ricordare i suoni (loop fonologico) e produrre quindi le parole, spostando rapidamente l’attenzione e analizzando, sintetizzando e classificando le informazioni. La sottotitolazione in tempo reale richiede quindi molta pratica ed esperienza per poter controllare al meglio il carico cognitivo e prestare attenzione a tutte le fasi del processo contemporaneamente.
I respeaker lavorano in coppia, alternandosi ogni 20-30 minuti, e sono spesso supportati da un editor, il quale corregge in tempo reale il testo trascritto dal software.
È anche possibile utilizzare la tecnica del respeaking in abbinamento con l’interpretazione simultanea per produrre testo o sottotitoli in una lingua diversa da quella dei relatori.

State cercando un sottotitolatore per un pubblico sordo oppure per una conferenza multilingue? https://www.interpretetraduttricesimultanea.com/Respeaking.html

Informazioni sull’autrice:

Alessandra Checcarelli è interprete di conferenza e traduttrice con lingue inglese, tedesco e francese. Si laurea a Roma in Mediazione linguistica e culturale nel 2007 e in Interpretariato di conferenza nel 2010, dopo aver trascorso un periodo di studi a Monaco di Baviera. Già membro del direttivo dell’Associazione Internazionale di Respeaking onA.I.R.-Intersteno Italia, attualmente è socio ordinario dell’associazione ed esperta di respeaking per la sottotitolazione live.

Pillole di psicolinguistica: perché le lingue che parliamo influenzano i nostri movimenti oculari

Traduzione dall’inglese dell’articolo “The language you speak influences where your attention goes. It’s all because of the similarities between words” di Viorica Marian apparso su Scientific American: https://blogs.scientificamerican.com/observations/the-language-you-speak-influences-where-your-attention-goes/

La psicolinguistica è un campo che interseca la psicologia e la linguistica. Una delle sue recenti scoperte è che le lingue che parliamo influenzano i nostri movimenti oculari. Ad esempio, gli anglofoni che sentono la parola candle (candela) guardano spesso una caramella (candy) perché le due parole iniziano con la stessa sillaba. Le ricerche condotte su parlanti di lingue diverse hanno rivelato che i bilingui non guardano soltanto gli oggetti corrispondenti alle parole che hanno gli stessi suoni in una lingua, bensì anche quelli corrispondenti alle parole che hanno gli stessi suoni nelle loro due lingue. Quando le persone bilingui russo-inglesi sentono la parola inglese marker (evidenziatore), guardano anche un francobollo (stamp), perché la parola russa che sta per francobollo è marka.

Sorprende ancora di più il fatto che i parlanti di lingue diverse presentino tipi di movimenti oculari diversi quando non viene parlata nessuna lingua. In un semplice compito di ricerca visiva nel quale le persone dovevano trovare un oggetto visto in precedenza tra altri oggetti, i loro occhi si muovevano in modo diverso a seconda della lingua che conoscevano. Per esempio, quando cercavano un orologio (clock), gli anglofoni guardavano anche una nuvola (cloud). Gli ispanofoni, invece, quando cercavano lo stesso orologio, guardavano un regalo, in quanto le parole spagnole che stanno per orologio e regalo (reloj e regalo) iniziano con la stessa sillaba.

E non finisce qui. Non solo le parole che sentiamo attivano altre parole dal suono simile, e non solo guardiamo oggetti i cui nomi hanno gli stessi suoni o le stesse lettere anche quando non viene parlata nessuna lingua, ma le traduzioni di quei nomi in altre lingue si attivano anche in coloro che parlano più di una lingua. Per esempio, quando i bilingui spagnolo-inglesi sentono la parola duck (anatra) in inglese, guardano anche una pala (shovel), perché le traduzioni in spagnolo di duck e shovel (pato e pala, rispettivamente) si sovrappongono.

Grazie al modo in cui il nostro cervello organizza ed elabora le informazioni linguistiche e non linguistiche, una singola parola può innescare un effetto domino che si estende a cascata a tutto il sistema cognitivo. Questa interattività e co-attivazione non si limita soltanto alle lingue parlate: anche i bilingui di lingue parlate e lingue dei segni presentano una co-attivazione. Ad esempio, i bilingui che conoscono la lingua dei segni americana e l’inglese guardano il formaggio (cheese) quando sentono la parola inglese paper (carta), perché cheese e paper condividono tre delle quattro componenti del segno nella lingua dei segni americana (la configurazione, la posizione e l’orientamento della mano, ma non il movimento).

Cosa ci dicono risultati come questi? Non solo il sistema linguistico è estremamente interattivo e presenta un elevato grado di co-attivazione tra parole e concetti, ma ha anche un impatto sulla nostra elaborazione in altri ambiti quali la vista, l’attenzione e il controllo cognitivo. Nella vita di tutti i giorni, i nostri movimenti oculari, ciò che guardiamo e ciò a cui prestiamo attenzione sono influenzati in modo diretto e misurabile dalle lingue che parliamo.

Le implicazioni di queste scoperte nei contesti applicativi spaziano dal comportamento dei consumatori (ciò che guardiamo in un negozio) al settore militare (la ricerca visiva in scene complesse) fino all’arte (ciò che attira i nostri occhi). In altre parole, è possibile affermare che la lingua che parliamo influenza il nostro modo di vedere il mondo, non solo in senso figurato, ma anche in senso letterale, in quanto condiziona anche la meccanica dei movimenti oculari.

Riflessioni sul relativismo linguistico

L’origine dell’ipotesi Sapir-Whorf

L’ipotesi del relativismo linguistico (ipotesi Sapir-Whorf: da Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf) afferma che il linguaggio influenza la nostra mente, pertanto il nostro sviluppo cognitivo è influenzato dalla lingua che parliamo.
Per quanto possiamo collegare questa ipotesi alla neolingua di 1984 di George Orwell, è indubbio che gli studi sulle scienze cognitive hanno dimostrato che la mente umana dipende dalle dinamiche linguistiche.
Già nel Settecento il linguista e filosofo Wilhelm von Humboldt affermava che le lingue sono in grado di strutturare la realtà a loro piacimento. A un linguaggio corrisponderebbe quindi una visione del mondo, pertanto chi studia una nuova lingua acquisirebbe un nuovo punto di vista.
Lo stesso concetto fu sostenuto da Franz Boas, padre dell’antrolopogia moderna e docente di Edward Sapir, quando parlò di relativismo culturale e quindi di unicità di ciascuna cultura.
In seguito Benjamin Whorf completò gli studi di morfologia del docente Edward Sapir, il quale affermava che non è il lessico a modificare il nostro modo di percepire la realtà, bensì è necessario andare oltre la superficie della lingua e scendere più in profondità fino alla morfologia, perché è lì che il linguaggio influenza il parlante.
Partendo da un’approfondita analisi della lingua hopi, parlata da alcune comunità native dell’Arizona del Nord, Whorf giunse alla conclusione che se un popolo primitivo e culturalmente arretrato come gli Hopi utilizza un lingua senza tempo, ha una concezione del tempo diversa e addirittura più evoluta del parlante di una lingua occidentale.
La moderna critica al relativismo linguistico partì dal fatto che Whorf portò all’estremo l’ipotesi originale, fino a spingersi a parlare di determinismo linguistico: non soltanto il pensiero e il linguaggio si influenzano reciprocamente, ma è il linguaggio a determinare il pensiero.

L’universo secondo gli Indiani d’America

Dagli studi di Whorf emerse che gli Hopi non hanno un’intuizione del tempo come un continuum che scorre uniformemente da un futuro attraverso un presente in un passato. L’osservatore non viene trascinato nel flusso di durata da un passato verso un futuro, perché la lingua hopi non contiene riferimenti al tempo e non è in grado di descrivere e di spiegare pragmaticamente i fenomeni osservabili dell’universo. Gli Hopi hanno una diversa concezione del tempo: la loro visione del mondo non è matematica, ma linguistica, e parte da una metafisica diversa.
Secondo la concezione hopi, il tempo scompare e lo spazio non è omogeneo, istantaneo e senza tempo, come invece è descritto dalla meccanica newtoniana classica. Entrano in gioco nuovi concetti e nuove astrazioni, per le quali il nostro linguaggio non possiede i termini adatti, che sono implicite nella struttura e nella grammatica della lingua hopi e sono osservabili nella relativa cultura. Mentre noi imponiamo all’universo due grandi forme cosmiche separate, cioè lo spazio (infinito, tridimensionale, statico) e il tempo (cinetico, monodimensionale, un fluire uniforme ed eterno), e suddividiamo il tempo in passato, presente e futuro, la metafisica degli Hopi parla di “manifesto” e “manifestantesi”, ovvero oggettivo e soggettivo.
È oggettivo o manifesto tutto ciò che è, è stato o è accessibile ai sensi, cioè l’universo fisico; è soggettivo o manifestantesi tutto ciò che è futuro e allo stesso tempo tutto ciò che è mentale, che appare o esiste nella mente o nel cuore dell’uomo, così come nel cuore degli animali, delle piante e di tutte le cose, cioè il cuore della natura: un’idea carica di tensione religiosa e magica che rimanda al cuore stesso del cosmo.
Il soggettivo abbraccia quindi la sfera mentale, intellettiva ed emotiva, la cui essenza e la cui forma è rappresentata dallo sforzo del desiderio intenzionale, intrinsecamente intelligente come il cosmo, verso un manifestarsi imprevedibile ma inevitabile. È il regno del desiderio, dell’intenzione, dell’attesa, delle cause efficienti, del pensiero che pensa e crea se stesso al di fuori del cuore, nel suo manifestarsi. Non emerge da un futuro, bensì è già con noi in forma vitale e spirituale, è dinamico perché accade e si manifesta, si evolve senza movimento e per gradi dal soggettivo a un risultato che rappresenta l’oggettivo. Le parole in lingua hopi che potremmo tradurre come “venire” e “andare” significano in realtà “accade verso qui” oppure “accade da” o “arrivato”, riferito soltanto alla manifestazione finale, all’arrivo vero e proprio in un punto determinato e non a un movimento che lo precede. Questa sfera del soggettivo o del processo di manifestazione distinto dal mondo oggettivo del risultato include anche un aspetto dell’esistenza che per noi fa parte del presente: è ciò che inizia a emergere manifestandosi, qualcosa che inizia a essere fatto, ma che non è ancora in pieno svolgimento. Questo può essere indicato con la forma “aspettativa” hopi riferita al nostro futuro, cioè al desiderio, alla volontà, all’intenzione. Così la frontiera ristretta del soggettivo passa attraverso e include parte del presente, cioè il momento dell’inizio, ma gran parte del nostro presente appartiene alla sfera soggettiva e perciò non è distinto dal nostro passato.
Un’altra forma verbale, l'”incoativo”, si riferisce a questa frontiera della manifestazione emergente nella direzione opposta, in quanto appartenente all’oggettivo, cioè la frontiera in cui si raggiunge l’oggettualità, e indica l’inizio o la partenza. A volte nella traduzione non è possibile fare una distinzione dall’uso analogo della forma aspettativa. Tuttavia l’incoativo è riferito all’oggettivo e alla fine del processo di causazione nell’istante in cui annuncia l’inizio della manifestazione. L’azione fondamentale risiede nello stato incoativo, quando la causazione sta cessando; la causazione la chiameremo “tempo passato” e il verbo includerà in una sola espressione sia questo sia l’inizio sia la causazione dello stato finale. La sfera del soggettivo hopi è per noi il regno della speranza, dove la forma incoativa non vuol dire però “comincia a sperare”, bensì “si avvera, perché si ha speranza”.
Per quanto riguarda lo spazio, il soggettivo hopi è una sfera spirituale, non spaziale, correlata con una dimensione verticale che ha come poli lo zenith e il sottosuolo, così come è correlato al cuore delle cose, ovvero il nostro mondo interiore. Invece l’oggettivo è la grande forma cosmica dell’estensione, che include tutti gli aspetti che riguardano gli intervalli e le distanze, il seriale e il numerico. La sua distanza include ciò che noi chiamiamo tempo, ovvero la relazione temporale tra eventi che sono già accaduti.
Gli Hopi concepiscono il tempo e il movimento nella sfera oggettiva in senso soltanto operativo, per cui l’elemento temporale non è separato dagli elementi spaziali, così gli eventi distanti dall’osservatore possono essere conosciuti oggettivamente solo quando sono “passati” (oggettivi) e più sono distanti più sono “passati” (più si è operato su di essi a livello soggettivo). A mano a mano che la sfera oggettiva ed estesa si allontana dall’osservatore a una distanza remota nello spazio e passata nel tempo, l’estensione cessa di essere conoscibile nei dettagli e si perde nella vastità della distanza, in cui il soggettivo si fonde con l’oggettivo. A questa distanza inconcepibile dall’osservatore c’è una fine è un principio onnicomprensivi delle cose, come se l’esistenza inghiottisse le sfere soggettiva e oggettiva. Il confine è fatto di entrambe le cose ed è l’abisso dell’antico, del tempo e dello spazio dei miti, che è conoscibile solo soggettivamente o mentalmente. All’oscuro passato dei miti corrisponde una distanza sulla Terra che si raggiunge soggettivamente come mito attraverso l’asse verticale della realtà e il polo del nadir, una terra simile alla nostra ma rispetto alla quale la nostra è un cielo lontano. Allo stesso modo, il nostro cielo è attraversato dagli eroi delle leggende, che trovano al di sopra di esso una regno simile alla Terra.
Pertanto i concetti di “tempo” e di “materia” non sono dati dall’esperienza a tutti nella stessa forma, ma dipendono dalla natura della lingua attraverso il cui uso si sono sviluppati. Non dipendono da un particolare sistema grammaticale quanto dai modi di analizzare e riferire l’esperienza che si sono affermati nella lingua come “modi di parlare” integrati. Se per gli Hopi la “durata” è inconcepibile in termini di spazio e di moto, essendo il modo in cui la vita differisce dalla forma e la consapevolezza globale degli elementi spaziali della coscienza, idee come la simultaneità assoluta, nati dal concetto occidentale di tempo, sarebbero o molto difficili o impossibili da esprimere se non vuote di significato per la mentalità hopi.

La linguistica come nuova scienza?

Gli scienziati proiettano inconsciamente le strutture linguistiche di un certo tipo di lingua sull’universo e le vedono materializzate nell’aspetto della natura. Il linguaggio scientifico contemporaneo è ancora fondato sulle lingue indoeuropee occidentali, per cui vede azioni e forze dove per una concezione come quella hopi esisterebbero solo stati. La mente inferiore, che è quella individuale, presa in un vasto mondo che essa non può comprendere attraverso i suoi metodi, usa il dono del linguaggio per tessere l’illusione della Ragione, per analizzare la realtà provvisoriamente ma considerandola definitiva.
Finché la scienza non si libererà dalle necessità illusorie della logica comune, ovvero dalle necessità grammaticali delle lingue indoeuropee occidentali, non potrà capire la logica trascendentale che sta dietro alla mentalità di alcune culture e delle relative lingue. Cambiando il linguaggio potremmo forse trasformare il nostro modo di vedere il cosmo. La conoscenza linguistica comporta la conoscenza di sistemi di analisi logica diversi, attraverso i quali il mondo può essere visto da punti di vista diversi e diventare comprensibile in modi nuovi. La comprensione scientifica di lingue molto diverse e l’analisi della loro struttura sarebbe una lezione di fratellanza del principio umano universale che permetterebbe di trascendere i limiti delle particolarità, fino a scoprire che, nelle profondità dei diversi sistemi linguistici, siamo tutti uguali.

I viaggi nella storia: dalla curiosità all’esperienza

Nell’antichità si era spinti a viaggiare per curiosità, sete di conoscenza e desiderio di esplorare nuove realtà. Tuttavia, viaggiare non era privo di rischi: le malattie, la fame, la siccità e il pericolo di morte erano all’ordine del giorno, per cui si preferiva farlo perlopiù per necessità politiche, militari, mediche, commerciali o religiose.
Con l’espansione delle strade e il progresso tecnico, le barche, i carri e le carrozze sostituirono gli spostamenti a piedi o a cavallo e si iniziò a viaggiare anche per turismo, evitando però sempre i luoghi ostili od oggetto di possibili disordini e rivolte civili. I pericoli erano pur sempre in agguato, per cui si portavano con sé denaro, armi e soprattutto viveri, perché ancora non esistevano taverne o luoghi di ristoro.
Nell’Antico Egitto si viaggiava spesso per affari di governo e si approfittava per fermarsi più a lungo nelle città straniere per frequentare ristoranti, negozi e sperimentare altre forme di intrattenimento.
In questo i Romani furono esemplari, in quanto costruirono una rete di strade lunga 100.000 km corredata da un fitto sistema di locande per consentire agli avventori di fare lunghi viaggi a tappe. Per agevolare il turismo e gli scambi commerciali e culturali, le destinazioni più ambite si attrezzarono anche con servizi locali in più lingue.
I viaggi per vacanza subirono una battuta d’arresto nel Medioevo a causa delle guerre e della più marcata separazione tra le culture e si tornò a viaggiare per motivi religiosi o politici, finché Marco Polo nel Duecento non alimentò nuovamente l’interesse per le esplorazioni.
In epoca rinascimentale fiorirono gli scambi commerciali e i servizi turistici, la ricchezza di beni provenienti dall’estero suscitò la curiosità delle persone e iniziò l’era dei viaggi, che culminò nel Seicento e nel Settecento nell’epoca del Grand Tour.
Allora i viaggi divennero soprattutto prerogativa delle classi più abbienti e istruite, che si spostavano in carrozza accompagnate dai servitori e da guide e chauffeur esperti. Le mete più ambite all’epoca erano i paesi europei come l’Italia, la Francia, la Germania e la Svizzera.
La rivoluzione industriale, se da un lato richiedeva lunghi turni di lavoro nelle fabbriche e scarso tempo libero per i lavoratori, dall’altro diffuse maggiore ricchezza tra la popolazione e si iniziò a viaggiare, oltre che per vacanza, anche per ragioni economiche.
Successivamente le automobili, le navi e gli aerei resero gli spostamenti molto più semplici e il lavoro d’ufficio consentì una flessibilità ancora maggiore. Furono favorite le destinazioni caratterizzate da reti stradali e tecnologie più avanzate, e le ferie pagate incentivarono le vacanze a ritmi mai visti prima.
Nel Novecento viaggiare diventò più accessibile che mai e con il passare del tempo la sete di conoscenza dei tempi antichi iniziò a fare spazio a un maggiore desiderio di viaggiare per vivere e accumulare nuove avventure ed esperienze.

SottotitoliAMO: insieme per migliorare la sottotitolazione in Italia

L’Associazione onA.I.R., ovvero il gruppo nazionale italiano di Intersteno (la federazione internazionale per il trattamento dell’informazione e della comunicazione), ha tra i suoi obiettivi generali la divulgazione della pratica della sottotitolazione in tempo reale e in differita, della trascrizione e della ripresa del parlato tramite la tecnica del respeaking (trascrizione in tempo reale del parlato tramite software di riconoscimento del parlato).

Il 4 marzo 2023 l’Associazione onA.I.R. ha compiuto 11 anni e ha deciso di festeggiare con l’evento SottotitoliAMO

L’incontro ha l’obiettivo di creare una collaborazione tra associazioni operanti nel campo della sordità per contribuire a migliorare e a diffondere maggiormente la sottotitolazione in Italia. L’augurio è che questo incontro iniziale tra fruitori e fautori di sottotitoli dia vita a un dialogo che possa continuare nel tempo, in successivi incontri mirati, al fine di redigere delle proposte standard da presentare ai canali televisivi, ai teatri, agli enti pubblici e ad altre realtà. 

Dopo un’introduzione ai lavori, ogni associazione esporrà la propria idea ed esperienza riguardo ai servizi di sottotitolazione a disposizione al giorno d’oggi e darà il proprio contributo in termini di miglioramento, esigenze e proposte pratiche. I nostri esperti di sottotitolazione faranno poi il punto della situazione e risponderanno alle domande dei relatori e del pubblico, proponendo eventuali gruppi di lavoro specifici per ogni tematica affrontata. Questo modo di lavorare è già stato sperimentato dalle associazioni inglesi delle persone con disabilità uditive nel Regno Unito, permettendo loro di formare un osservatorio nazionale: l’UK Council on Deafness.

L’evento sarà reso completamente accessibile tramite sottotitolazione e LIS e sarà trasmesso in streaming su YouTube: https://www.youtube.com/@respeaking/. Sarà anche possibile collegarsi direttamente su Zoom: https://us06web.zoom.us/j/89719883338?pwd=bXVjUzk4UkQyTUFma0NETHdOOEVIdz09 sabato 11 marzo dalle 16 alle 19.

Per maggiori informazioni sull’Associazione Internazionale di Respeaking onA.I.R. (associazione no profit costituita nel 2012) si veda: https://www.facebook.com/onA.I.R.InterstenoItalia/.

Sognatori di Libertà

di Alisa Relli (*)

(*Tutti i diritti sono riservati)

PREMESSA

Questo libro è il frutto di un percorso trasformazionale di leadership, che mi ha portato un nuovo livello di consapevolezza e insegnato gli strumenti per affrontare i miei limiti e vivere la libertà di realizzare i miei sogni.
Il suo contenuto non è direttamente legato agli argomenti che ho affrontato durante questa esperienza, tuttavia include molti dei suoi insegnamenti, che ho raccolto con l’auspicio che possano essere utili al lettore che, come me, ambisca a vivere il suo sogno di libertà.
Sono una sognatrice da sempre e sin dall’infanzia amo scoprire il mondo e l’animo umano attraverso le pagine dei libri. Per questo motivo, l’ispirazione dell’immaginazione non avrebbe che potuto accompagnarmi in questo mio primo esperimento di scrittura.
All’innocente fantasia aggiungo una visione più concreta, unita al desiderio e alla volontà di realizzarla, perché è questo che ho appreso nel mio intenso e illuminante percorso di leadership. Questo viaggio ha confermato la mia intuizione che il senso della libertà consiste nell’autorealizzazione e nella felicità che consegue all’impegno e alla fatica di scalare con passione la montagna della vita, per poi godersi la vista dalla cima.
Questo libro è anche un esperimento personale di “autenticità, fiducia e coraggio”, uno spazio nel quale racconto me stessa attraverso la vita e le idee di personaggi reali o immaginari, che in questo percorso (per la verità iniziato molto prima) sono stati per me un’infinita fonte di ispirazione.
Descrivendo il coraggioso sogno di libertà di questi grandiosi esempi, il mio intento è ispirare il lettore a incamminarsi in un viaggio di ricerca di sé, delle proprie passioni e delle inesauribili possibilità che l’universo ci offre per aprirci la strada della felicità.

“Sei mai stata in un tempio e visto uomini inginocchiarsi in silenzio, con riverenza,
le loro anime elevate a ciò che di più alto possono raggiungere?
Lassù dove sanno di essere puliti, e limpidi, e perfetti?
Quando il loro spirito è il fine e la ragione di tutte le cose?
Poi ti sei chiesta perché tutto questo debba esistere solo in un tempio?
Perché gli uomini non riescano a portare tutto questo anche nella loro vita?
Perché, se riescono a conoscere quell’elevazione,
possano ancora voler vivere a un livello inferiore?
È ciò che vogliamo vivere, tu e io.
E se possiamo sognare, dobbiamo anche vedere i nostri sogni nella nostra vita.
Altrimenti… a cosa servono i sogni?”

Ayn Rand, Ideale

INDICE

INTRODUZIONE

1 – LA LIBERTA’ NELLA MITOLOGIA
Ulisse: l’astuzia al servizio della conoscenza
Circe: dalla solitudine al coraggio della libertà
La morte di Ulisse e l’apoteosi della forza di Circe

2 – LA LIBERTA’ NELL’AVVENTURA
Una vita all’insegna dell’avventura
La libertà dell’avventura come ricerca di sé

3 – LA LIBERTA’ NELL’ARTE
Piccoli viandanti di fronte al sublime

4 – LA LIBERTA’ NELLA FILOSOFIA
Chi era Ayn Rand
La filosofia oggettivista
Ideale: un ideale di vita al servizio dei sogni
Noi vivi: l’esaltazione della vita attraverso la morte
La vita è nostra: dal “noi” all’”io”
La fonte meravigliosa: l’individuo contro il mondo
La rivolta di Atlante: chi è John Galt?

5 – LA LIBERTA’ NELLA LETTERATURA
Liberté!
Libertà!

6 – LA LIBERTA’ NEL CINEMA
L’Isola delle Rose
Esempi di isole di libertà

7 – LA LIBERTA’ NEL DIRITTO
Azione umana, diritto, linguaggio
Giusnaturalismo e giuspositivismo
Diritto negativo e diritto positivo nella filosofia e nella storia
Il positivismo giuridico
Prasseologia e principio di non aggressione

8 – LA LIBERTA’ NELL’ECONOMIA
Come nasce la Scuola Austriaca di Economia
L’economia alla portata di tutti
Come funziona l’azione umana
L’attualità delle teorie austriache

9 – LA LIBERTA’ NELLA STORIA
La libertà del Medioevo
Un Far West selvaggio o libero?

10 – LA LIBERTA’ NELLA FEDE

CONCLUSIONI – LA VIA VERSO LA LIBERTA’

INTRODUZIONE

“Quando un uomo ha grossi problemi
dovrebbe rivolgersi a un bambino;
sono loro, in un modo o nell’altro,
a possedere il sogno e la libertà.”

Fëdor Dostoevskij

Proprio oggi, con l’intenzione maturata da tempo di cominciare a raccontare l’essenza della mia volubile anima, mi sono imbattuta in questa eloquente citazione di Dostoevskij: quando hai un problema, guarda un bambino, perché lui conosce il sogno e la libertà.
Non volendo chiamarlo “destino”, lo definirei il segno dell’esistenza di un filo rosso che lega le esperienze di vita, un segnale da intuire e da cogliere al volo, lo stimolo a creare un nuovo inizio.
Un inizio che ha il gradevole sapore della carta e dell’inchiostro: parlo di quella rassicurante sensazione di avere un libro tra le mani e di immaginare romanticamente l’anima che lo ha creato dal suo involucro fisico, da quel corpo che ha dato vita a ciò che teneva dentro, prendendo in mano la penna e dando espressione al suo coraggio di raccontarsi.

Questa breve e fugace visione della mia eterna capacità di sognare mi riporta indietro all’infanzia, al luogo dell’intuizione, della naturale consapevolezza dell’esistenza e di quella spontaneità nel dire: “Eccomi, sono qui, aperta alle mille possibilità che verranno per portarmi dove devo stare”. Era il tempo in cui, sognando a occhi aperti, distratta dal mio mondo molto più che dal mondo esterno, intravedevo innumerevoli vie d’uscita, o a volte non le vedevo affatto, ma tutto accadeva naturalmente, perché non ero ancora gravata dal peso delle sovrastrutture che la mia mente avrebbe in seguito costruito come paracadute.
Definirei l’infanzia “un luogo chiamato libertà”: la libertà di sognare senza essere giudicati pazzi o visionari; la libertà di isolarsi dalle cose per guardare oltre, per cercare la felicità dentro di sé, per raggiungere una tranquillità d’animo e una serenità limpida, pura, capace di accogliere le esperienze del mondo senza mai rifiutarle; uno stato di pace libero in cui si è concentrati solo sulla propria essenza e sulla strada giusta da percorrere.
È uno stato di grazia che nel tempo lascia spazio alla necessità di parare gli attacchi del vuoto d’Amore, ossia del “male” che alberga nel mondo, quel male che, nostro malgrado, costituisce tanta parte di quella che orgogliosamente chiamiamo Vita. È il prezzo della libertà di chi ha fede e di chi non ne ha, una libertà che non ci esula dalle responsabilità, ma che possiamo solo accogliere e accettare di vivere con tutti i suoi mille pericoli.
Solo un’anima intrinsecamente romantica e nostalgica, benché racchiusa negli innumerevoli involucri che costituiscono il suo paracadute, riesce a non privarsi del sogno di questa inconsapevole quanto rara e preziosa perla. Solo l’uomo che rimane fedele alla sua naturale essenza riesce a conservare quell’infantile nostalgia che lo catapulta ogni volta all’interno della sua anima, riconducendolo a sé.
Solo il pazzo visionario in cui ti capita di imbatterti nella vita può indurti a scorgere ciò che hai dimenticato di vedere, perché il distratto in realtà eri tu. Eri tu quando hai smesso di credere. Eri tu quando hai perso la bussola della verità. Eri tu quando hai iniziato a sentirti una parte insignificante di un tutto senza direzione. Eri tu quando hai accettato che la vita sia possibile solo all’interno di una sovrastruttura di regole tanto necessarie quanto inutili. Eri tu quando hai smesso di sognare e di vedere le migliaia di possibilità che l’universo ti offriva per accogliere il tuo sogno. Eri tu che sei diventato adulto smettendo di imparare dal bambino che sei stato.

Quella mia fugace idea romantica dello scrittore con penna e calamaio, che mi porta ogni volta a fare un viaggio nel tempo dall’interno, senza pensare agli intralci della realtà lì fuori, è il mio emblema del coraggio di sognare la libertà.
Tanti come lui hanno mantenuto un’anima infantile, non scossa dalle intemperie dello scorrere della storia, rimasta integra nella sua ferrea volontà di affermarsi e di rimanere viva ed eterna. Tanti ma sempre troppo pochi hanno avuto il coraggio di persistere nell’espressione del loro sogno di libertà, di non cedere al “male” e di rimanere fedeli alla loro visione bambina e profondamente saggia del mondo.
Senza alcuna pretesa di essere esaustivo, questo breve scritto è dedicato a loro.
È dedicato agli impavidi eroi dell’Esercito dei Liberi, a chi è rimasto così fedele a se stesso e al suo Io bambino da non poter fare a meno di viverlo e di raccontarlo.
È dedicato a quelle anime coraggiose che hanno espresso l’essenza universale della natura umana, ciascuna ispirata dalla propria musa: la mitologia, l’avventura, l’arte, la filosofia, la letteratura, il cinema, il diritto, l’economia, la storia, la fede. Ogni capitolo è incentrato su un personaggio emblematico per chi scrive, su una personalità autentica e audace che, affidandosi alla forza che muove l’universo, ha preferito il rischio della libertà alla sicurezza delle catene.
Infine, è dedicato a chi ancora farà storcere il naso ai “cresciuti”, o ai perbenisti, o ai predicatori dell’ordinario, o ai politicamente corretti dello spirito, o ai padroni delle anime degli altri, o agli schiavi incapaci di vedere la loro gabbia, o a chi pretende di bloccare il libero scorrere della vita e della verità, per evitare di guardarsi dentro.

La libertà non si insegna, la libertà si avverte, non si scopre, ma si riscopre. Come una torcia che illumina qualcosa che già esiste, ma che abbiamo dimenticato di vedere o di poter trovare. È come la verità: la cerchi, ma in definitiva è lei a trovarti; tutto ciò che devi fare è restare sveglio per accogliere quella luce.
I miei “sognatori di libertà” hanno incontrato il loro Prometeo in un personalissimo percorso di ricerca, spontaneo o voluto, che li ha chiamati a interrogarsi, a dubitare, a confrontarsi, a non arrendersi alle insidie dei predicatori delle false verità. Sono coloro che hanno creduto, che hanno guardato oltre e che non si sono accontentati dell’”ovvio” o del “già dato”. Sono i saggi visionari che hanno scelto di vivere la libertà, spinti dalla curiosità per la bellezza della vita, audaci e forti della loro fiducia che “se puoi sognarlo, puoi farlo”.
E tu, sei pronto a lasciarti ispirare e a vivere il tuo sogno di libertà?

16 novembre 2022

1 – LA LIBERTA’ NELLA MITOLOGIA

“Non intende dire che non fa male.
Non intende dire che non siamo spaventati.
Solo questo: che siamo qui. 
È questo che vuol dire nuotare nella corrente,
camminare sulla terra e sentirne il tocco sotto i piedi.
È questo che significa essere vivi.”

Madeline Miller, Circe

La passione per i miti greci ha accompagnato i miei sogni di bambina e i miei interessi di adulta. Per me la mitologia è sempre stato il luogo prediletto del sogno e della fantasia, nonché un validissimo mezzo di scoperta dell’animo umano, dei suoi vizi e delle sue virtù, e degli archetipi che rappresentano e costituiscono il nostro variegato universo psicologico.

Tra i miti greci che ho letto, studiato, approfondito, dimenticato e in seguito ripreso, le figure che mi hanno affascinata di più e che tuttora prenderei a modelli di una vita condotta all’insegna del coraggio della libertà, sono indubbiamente Ulisse e Circe. In entrambi c’è qualcosa che racconta la mia personalità e la mia storia, così come c’è tanto del valore che riconosco universalmente alla natura umana. Il filo rosso che lega i due personaggi è il viaggio: in Ulisse il viaggio esteriore, in Circe il viaggio interiore; uno staccarsi dalle origini per andare alla continua ricerca del proprio sé; un eterno vagare per fuggire, per conoscere, per capire, per tornare alla propria essenza con un’immagine più chiara e definita di se stessi e del mondo; un’avventura infinita tra gli ostacoli della vita, verso una fine che fine non è, bensì un cerchio che si chiude. Dagli abissi più profondi ai cieli più immensi passando per una terra ricca di avversità, l’avventura di vita di Ulisse e Circe è un soffio fresco al contempo fugace e immortale, un eterno luogo del sogno, una verità umana così antica ma anche così intrinsecamente moderna.

Ulisse: l’astuzia al servizio della conoscenza

Ulisse (“ferito a un’anca”) o Odisseo (“odiato dai nemici”) era il re di Itaca, figlio di Laerte e Anticlea, personaggio dell’Iliade e dell’Odissea di Omero e protagonista di quest’ultima. Nell’Iliade è il principale consigliere di Agamennone (sovrano di Micene) durante la guerra di Troia, che scoppia in seguito al rapimento da parte di Paride di Elena, regina di Sparta e moglie di Menelao, fratello di Agamennone. Ulisse escogita il trucco del cavallo di legno, grazie al quale gli achei, sotto la protezione della dea Atena, vincono la guerra.

Dopo dieci anni trascorsi a Troia a combattere, Ulisse soffre la lontananza da casa e vuole tornare a Itaca, dove lo aspettano la moglie Penelope e il figlio Telemaco, alle prese con i Proci, centodiciannove nobili che aspettano di sposare la presunta vedova per ottenere il regno di Itaca. Sperando nel ritorno del marito, Penelope promette ai pretendenti che farà la sua scelta dopo aver ultimato il sudario per Laerte, ma per guadagnare tempo disfa di notte la tela che tesse di giorno. Nel frattempo Ulisse si ritrova, suo malgrado, a vivere incredibili avventure a causa dell’ira del dio Poseidone, che con la furia del vento e del mare lo costringe ad affrontare naufragi e ad approdare in terre piene di pericoli. Così la nostalgia della terra e degli affetti e la ricerca della libertà perduta diventano per l’eroe lo stimolo per affrontare con coraggio il destino che gli dei hanno deciso per lui e per affermare il suo libero arbitrio, lottando incessantemente contro la loro volontà.

Passando per la terra dei Ciconi, per l’isola dei Lotofagi, per la terra dei Ciclopi, per l’isola di Eolo e in seguito per la terra dei Lestrigoni, Ulisse approda con i compagni sull’isola di Eea. Lì la maga Circe lo trattiene per un anno e lo invita a visitare il regno dei morti. Giunto nell’Ade, Ulisse incontra l’indovino cieco Tiresia, il quale gli predice la lotta contro i Proci e una morte “lontano dal mare”, avvertendolo di non cibarsi delle vacche sacre di Elios sull’isola di Trinacria. Ulisse torna quindi da Circe, la quale lo mette in guardia dai pericoli delle Sirene e dei mostri Scilla e Cariddi, ostacoli che l’equipaggio dovrà affrontare prima di giungere in Trinacria. Unico sopravvissuto alla tempesta scatenata da Zeus, Ulisse approda sull’isola di Ogigia, dove vive la ninfa Calipso, figlia di Atlante, la quale si innamora di lui e lo trattiene per sette lunghi anni, finché Ermes non le intima di lasciarlo andare. Rimessosi in viaggio e quasi giunto a Itaca, Poseidone lo ferma di nuovo, così Ulisse finisce per approdare nella terra dei Feaci, dove incontra Nausicaa, la figlia del re Alcinoo, il quale gli dona una nave per fare ritorno a casa.

L’eroe torna finalmente alla sua isola, vestito da mendicante per non farsi riconoscere e per tentare con astuzia di riguadagnarsi il trono. Divenuto oggetto di scherno dei Proci, che hanno occupato il suo palazzo in attesa della scelta di Penelope, Ulisse partecipa alla gara di arco organizzata dalla moglie per scegliere il suo futuro sposo. Ottenuta la vittoria, con l’aiuto di Telemaco l’eroe uccide i Proci e viene riconosciuto da Euriclea, la sua anziana nutrice, che si accorge di una cicatrice che ha sulla gamba. Dopo aver superato un’ultima prova, alla quale Penelope lo sottopone, chiedendogli di spostare il talamo nuziale, che non poteva essere spostato dalla stanza perché lui stesso lo aveva intagliato in un ulivo, Ulisse riconquista finalmente il suo posto. Una volta compiuta la sua missione, si rimette in viaggio per approdare oltre il regno di Poseidone, cioè oltre le Colonne d’Ercole, ed è infine costretto a offrire sacrifici agli dei per placarne l’ira e vedere finalmente la pace tra i popoli, prima di morire di vecchiaia.

In letteratura esistono molteplici versioni della vicenda di Ulisse e altrettante interpretazioni della sua psicologia. Il topos del suo viaggio in mare è stato considerato più volte il simbolo dell’uomo alla ricerca della libertà e della conoscenza oppure il punto di partenza per indagare le profondità dell’animo dello scrittore. Le immagini di Ulisse che si avvicinano di più alla mia idea del personaggio come emblema della libera tensione verso l’assoluto e della ricerca della condizione umana sono quelle di Dante Alighieri, Gabriele D’Annunzio e Giovanni Pascoli.

Nel ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante, Ulisse compare nella bolgia dei consiglieri di frode a causa dei suoi molteplici inganni. Incapace di frenare la sua smania di “seguir virtute e canoscenza”, Ulisse compie il “folle volo” superando le Colonne d’Ercole, e rimane ucciso in un terribile naufragio prima di approdare alla montagna del Purgatorio. In Dante, Ulisse diventa quindi emblema della hybris, ovvero di quella che per gli antichi Greci era l’orgogliosa tracotanza dell’uomo che si affida completamente alla propria potenza e fortuna, ribellandosi contro l’ordine sociale costituito e i limiti imposti da Dio alla natura umana, incontrando così la tisis, ovvero la punizione divina.

Le Laudi di D’Annunzio descrivono Ulisse come il “Re degli Uomini”, ovvero il simbolo della volontà di potenza dell’uomo, della vita realizzata nel compimento assoluto e irripetibile di eccezionali imprese. È il superuomo che, sprezzante del pericolo, sceglie l’avventura solitaria per mare e naviga verso la libertà nella gioiosa pienezza della vita, elevandosi alla possibilità di essere artefice del proprio destino.

In contrasto con la dimensione eroica rappresentata da D’Annunzio, l’Ulisse de L’ultimo viaggio di Pascoli è un uomo moderno alla ricerca della propria identità e del senso dell’esistenza. Dopo dieci anni dal ritorno a Itaca, Ulisse ripercorre il viaggio dell’Odissea a ritroso, ma i suoi ricordi non coincidono più con la realtà, per cui alla fine viene trasportato dal mare sull’isola di Ogigia. Quando Calipso gli spiega che l’unico senso dell’esistenza umana è un destino di morte, la molla della sua sete di conoscenza si trasforma in consapevolezza dell’impossibilità di ottenere certezze, in naufragio e in sconfitta:

Il mio sogno non era altro che sogno, e vento e fumo.”

Circe: dalla solitudine al coraggio della libertà

Tra le figure più rilevanti della vicenda del re di Itaca, spicca quella di Circe, la misteriosa maga al contempo terribile e benevola, che nell’Odissea ammalia Ulisse e trasforma i suoi compagni di viaggio in maiali quando approdano nella sua magica isola. Nell’opinione popolare, l’immagine di Circe è stata spesso distorta, finendo per corrispondere a una terribile strega che ha osato ricercare la libertà e la conoscenza, plasmando il mondo al suo volere e incidendo sui destini umani.

Circe è innanzitutto una ninfa e una divinità dalle caratteristiche umane, un personaggio molto più vicino al mondo degli uomini che non a quello degli dei in termini di passioni, sentimenti e tumulti dell’anima, nonché di spiccata curiosità delle cose terrene, di capacità di adattarsi al mondo reale e di volontà di conoscere la natura per piegarla alla sua indomita volontà.

Il romanzo Circe di Madeline Miller (ed. Marsilio 2021, traduzione di Marinella Magrì) racconta magistralmente la nascita, la vita e il mondo interiore di questa figura controversa, proiettandola nella dimensione del divino e dell’umano, e restituendone un’immagine di grande forza morale e complessità psicologica: una donna al contempo indipendente e bisognosa di affetto, determinata e fragile, passionale e sfuggente, crudele e pietosa, ostile e amica.

Circe è un essere a metà tra il cielo e la terra: i suoi occhi gialli sfavillanti sono rivelatori del suo nome (“Circe” significa “falco” o “sparviero”) e della sua stirpe (è figlia del titano Elios, il dio del Sole, e della ninfa naiade e maga Perseide della stirpe di Oceano) e la sua voce umana (definita dagli dei “gracchiante”) è indice di una naturale inclinazione verso l’umano e tutto ciò che abita la Terra.

Circe è sorella di Perse, di Eete (re della Colchide, padre della mortale Medea e custode del Vello d’Oro) e di Pasifae (moglie del re di Creta Minosse, madre del Minotauro e di Arianna), nipote di Selene (dea della luna e sorella di Elios) e della titana e ninfa del mare Teti (moglie di Oceano) e cugina del titano Prometeo. Nel capolavoro di Miller, Circe diventa madre di Telegono (figlio di Ulisse e mitico fondatore delle città di Tuscolo e Preneste in Italia) e di due figlie avute da Telemaco (figlio di Ulisse e Penelope). La famiglia di Circe è composta da esseri perversi ed estranei a se stessi e ai loro simili, rappresentanti di tutti i vizi umani più estremi e strampalati. Questa pletora di divinità, comprese le persone a lei più vicine, la tratta con indifferenza, sufficienza e disprezzo, se non con palese ostilità:

Tutta la vita non ero stata che tenebre e abissi, ma io non ero parte di quelle acque scure. Ero soltanto una delle creature che le abitavano.

Figlia devota ma disobbediente, sorella pietosa e caritatevole, amante passionale e sincera, madre dall’amore smisurato, Circe è un personaggio in fuga dalla famiglia e in eterna ricerca di identità, in grado di trasformare il mondo oltre le apparenze, per rivelare la natura reale delle cose:

Celato sotto il dolce volto familiare delle cose, ce n’è un altro in attesa di spaccare in due il mondo.

Circe nasconde un animo umano sensibile e pietoso, oltre che una forza di carattere sconosciuta che le deriva dall’esperienza della sua diversità e di un profondo dolore, che solo un essere vulnerabile, solo al mondo e divenuto consapevole delle sue ferite interiori riesce a provare:

Le lacrime di coloro che hanno sangue di naiadi possono scorrere per l’eternità, e pensai che sarebbe potuta volerci un’eternità a esprimere tutto il mio dolore.

È l’unica tra gli dei a provare pietà per il cugino Prometeo, il titano che ha avuto l’ardire di sfidare la volontà di Zeus, portando all’umanità il fuoco della conoscenza e le arti della civiltà. Per questo viene legato a una rupe del Caucaso e costretto per l’eternità a vedersi continuamente mangiare il fegato da un’aquila. Mentre tutti gli dei si beffano del crudele destino toccato all’infedele e tracotante Prometeo, Circe è l’unica che da bambina gli rende visita di nascosto per accertarsi delle sue condizioni di salute.

Pur essendo una dea, anziché affidarsi interamente a un potere assoluto, preferisce imparare da sola l’arte di diventare maga, prediligendo l’impegno e la fatica e dimostrando a se stessa una forte resistenza e determinazione a trasformare il mondo, assumendosene il merito:

Lasciate che vi dica cosa non è la magia: non è un potere divino che sgorga con un pensiero e un batter d’occhi. La magia dev’essere creata e plasmata, pianificata e investigata, estratta, essiccata, sminuzzata e macinata, bollita, evocata con parole recitate e cantate. E ancora, può fallire, come agli dèi invece non succede.”

Dopo aver scoperto le sue arti magiche, mentre un giorno si reca alla ricerca di alcune erbe per le sue pozioni, incontra e si innamora di un umano, un pescatore di nome Glauco, che trasforma in divinità per permettergli di starle accanto. Una volta diventato un dio, tuttavia, anche lui inizia a trattarla con sufficienza e indifferenza, e si innamora della ninfa Scilla. Così Circe, in preda alla gelosia, trasforma la bellissima ninfa in un feroce mostro a sei teste e dodici tentacoli che si cela in una grotta di fronte al gorgo di Cariddi e divora i marinai.

Quando, a causa delle sue eccentricità, suo padre la manda in esilio sull’isola di Eea, Circe fa della solitudine la sua forza e si affida completamente all’indipendenza e alla determinazione per imparare a stare al mondo e riuscire a creare giorno dopo giorno il suo sogno di libertà. Gli animali le sono amici e compagni di avventura, le piante sono sue alleate: la natura della sua isola rispecchia romanticamente i suoi stati d’animo e si piega alla sua ostinata volontà di plasmare il mondo, per diletto o per difesa:

Non avevo altare, ma non ne avevo bisogno: ogni luogo in cui mi trovavo diventava il mio tempio.”

È la maga delle metamorfosi, che nel mutare della vita rimane fedele alla propria verità, scoprendo se stessa nella trasformazione del proprio mondo interiore, un eterno abisso di dolore che si erge a simbolo di forza di fronte all’ineluttabile mutare del creato:

Per un centinaio di generazioni avevo abitato la terra assopita e apatica, inattiva, e comoda. Senza lasciare traccia, senza compiere gesta. Anche quelli che un po’ mi avevano amato non si erano dati la pena di restare. Poi appresi che potevo piegare il mondo al mio volere, come si tende un arco per la freccia.”

Durante la sua vita sull’isola, Circe diventa amante del dio Ermes, il messaggero degli dei figlio di Zeus e della ninfa Maia, il quale funge da intermediario tra lei e le divinità. Quando Circe è chiamata a recarsi sull’isola di Creta dalla sorella Pasifae, per aiutarla a partorire il Minotauro, la sua vicenda si intreccia con quella di Dedalo, il maestro artigiano artefice del circolo per la danza di Arianna e del Labirinto che imprigiona il Minotauro:

In un’esistenza solitaria, sono rari i momenti in cui un’altra anima si fonde con la tua, così come le stelle sfiorano la terra una volta all’anno. Una tale costellazione era stato lui per me.

In seguito, quando Ulisse approda con i suoi compagni sull’isola di Eea, Circe se ne innamora e lo trattiene fino al concepimento di Telegono:

Vivere con lui era come essere vicino al mare. Ogni giorno un colore diverso, una diversa cresta d’onda, ma sempre la stessa irrequieta intensità che trascina verso l’orizzonte.

Questa esperienza di vita intreccia le sue vicende con quelle dei personaggi che gravitano intorno a Ulisse, in primis la moglie Penelope e il figlio Telemaco. In questa fase della sua vita, la saggezza acquisita dall’esperienza aiuta Circe a trovare un equilibrio tra la sua spiccata tendenza alla generosità verso gli altri e una più lucida comprensione delle motivazioni che spingono gli umani o gli dei a cercarla o ad allontanarla. Circe mostra un’iniziale diffidenza nei confronti di Penelope e Telemaco, senza tuttavia mai rinunciare alla sua propensione all’ascolto, all’accoglienza, e infine alla solidarietà e all’amore.

La morte di Ulisse e l’apoteosi della forza di Circe

La versione di Miller, supportata da un’ampia conoscenza delle fonti letterarie, vede Ulisse tornare a Itaca per scoprire che Telemaco è partito alla sua ricerca, spinto dalla dea Atena, per evitare che si avverasse l’oracolo che avrebbe visto Ulisse morire per mano del figlio. Nel frattempo anche Telegono, il figlio che a sua insaputa ha avuto con Circe, parte alla ricerca del padre e sbarca a Itaca. Questo sbarco di stranieri provoca un immediato allarme e nella battaglia tra gli itacesi e l’equipaggio di Telegono, Ulisse muore per mano sua.

Quest’ultima vicenda della morte di Ulisse fa da sfondo alla descrizione di un’ulteriore tratto della psicologia di Circe: il suo amore materno. Per proteggere il viaggio del figlio Telegono dall’ira della dea Atena, la quale, in quanto protettrice di Ulisse, voleva salvare l’eroe da morte certa, Circe riscopre un’indomita forza di volontà spingendosi oltre i confini del mondo per chiedere aiuto a un mostro inarrivabile, un’impresa dalla quale nessuno era mai uscito vittorioso. Soltanto grazie a una forza di carattere mai vista e a un’empatia tipica soltanto di un’umanità degna di definirsi tale, Circe riesce sorprendentemente nel suo intento.

Questa sconosciuta vicenda nella vita della maga più famosa della mitologia greca rappresenta l’apoteosi del libero arbitrio e della capacità di vincere qualsiasi avversità pur di restare fedele alla propria natura e alla volontà di voler plasmare a tutti i costi un mondo ostile ai propri desideri:

Non intende dire che non fa male. Non intende dire che non siamo spaventati. Solo questo: che siamo qui. È questo che vuol dire nuotare nella corrente, camminare sulla terra e sentirne il tocco sotto i piedi. È questo che significa essere vivi.

2 – LA LIBERTA’ NELL’AVVENTURA

“Ma come nasceva la mia avventura?
Innanzitutto riesumavo le mie fantasie di bambino,
le mie letture da ragazzo sulle quali avevo sognato non dico quanto.
Tutti a una certa età facciamo dei sogni su ciò che leggiamo,
e a questi sogni adesso io davo vita creandone il motivo dei miei viaggi.”

Walter Bonatti, In terre lontane

Quella che racconto in questo capitolo è la storia di un Ulisse moderno, che ha fatto della libertà dell’avventura la sua ragione di vita e la realizzazione di un sogno che aveva sin da bambino. È la storia di un grande alpinista ed esploratore italiano, che è diventato famoso in tutto il mondo per aver compiuto imprese al limite dell’umanamente possibile, e che ha raccontato le sue avventure spericolate nel corso della sua attività di giornalista, fotoreporter e scrittore.

Walter Bonatti nasce a Bergamo il 22 giugno 1930. Nel 1948 compie le sue prime scalate sulle Prealpi lombarde e dall’anno successivo inizia ad avventurarsi in numerose imprese alpinistiche dalle difficoltà estreme. La notte del 21 luglio 1951 riesce a raggiungere la cima del Monte Bianco in mezzo alla tempesta. Assegnato prima al Reggimento alpini di Vipiteno, diventa istruttore presso la Scuola militare alpina di Aosta. Nel 1956 compie la prima traversata scialpinistica delle Alpi in sessantasei giorni e nel 1954 partecipa alla spedizione italiana di Ardito Desio sulla cima del K2 come alpinista più giovane. Deluso dal comportamento dei compagni, da allora in poi Bonatti predilige compiere le sue imprese alpinistiche in solitaria. Nel 1955 in sei giorni Bonatti scala da solo il pilastro sud-ovest del Pett Dru, nel gruppo del Monte Bianco, fino a raggiungere la vetta, un’impresa indimenticabile nella storia dell’alpinismo. Seguono altre imprese in Italia e all’estero, in Patagonia, nella regione himalayana del Karakorum e in Francia. Compie la sua prima scalata in solitaria della Via Major del Monte Bianco, dopodiché si sposta sulle Ande peruviane. Conclude l’attività di scalatore nel 1965 sulla vetta del Cervino, che raggiunge in via diretta, da solo e in pieno inverno.

Una vita all’insegna dell’avventura

Intorno alla metà degli anni Sessanta, al culmine della stagione di leggendarie scalate che lo hanno fatto entrare nella storia dell’alpinismo mondiale, Walter Bonatti dà inizio a un nuovo capitolo della sua vita. Parte così per avventurose esplorazioni che lo portano nelle regioni più remote del pianeta, a diretto contatto con i pericoli più estremi di una natura primordiale, alla ricerca dell’armonia perduta tra l’uomo moderno e le più antiche forme di vita sulla Terra.

Nel 1965 discende in canoa per 2500 km i fiumi Yukon e Porcupine e si mette alla ricerca della via dei cercatori d’oro, attraversando i territori del Klondike e dello Yukon in Canada e in Alaska e venendo a contatto con gli orsi kodiak. Nel 1966 si trova in Africa: in Tanzania scala il Kilimangiaro e in Uganda esplora il Ruwenzori e raggiunge la cima. Inoltre incontra le tribù masai e attraversa un territorio selvaggio di 1200 km da solo per testare la convivenza pacifica con i coccodrilli, i bufali e i leoni. Nel 1967 in Venezuela giunge sull’Alto Orinoco entrando in contatto con gli indigeni waikas yanomami. Nel 1967 fa una spedizione alla ricerca delle sorgenti del Rio delle Amazzoni. Nel 1968 è in Indonesia sulle piccole isole della Sonda, si reca a Sebanga, sull’isola di Sumatra, per studiare il comportamento della tigre al cospetto dell’uomo ed entra in contatto con i sakai, una popolazione di aborigeni provenienti originariamente dalle giungle malesi. Nel 1969 in Australia esplora le sponde orientali del Lago Eyre, nel Deserto Simpson, il “Centro Rosso” dell’Australia. Nello stesso anno è nell’Oceano Pacifico e visita le isole Marchesi, al largo della Polinesia francese, dove ripercorre nella giungla il viaggio di Melville, quando era scappato dalla baleniera ed era diventato prigioniero dei cannibali. Nel 1970 si trova in Cile a Capo Horn e sale in solitaria il monte Aconcagua, la cima più alta delle Ande. Esplora per 500 km i fiordi della Patagonia, poi parte dalla penisola di Taitao per arrivare fino alla Laguna di San Rafael, alla testata del ghiacciaio. Nel 1971 naviga lungo l’intero corso del fiume Santa Cruz del Lago Viedma fino all’Atlantico, ripercorrendo la prima esplorazione del geografo Francisco Moreno nel 1877, seguita a quella di Charles Darwin nel 1834. Nel 1972 è in Zaire e in Congo, sul vulcano Nyiragongo e tra i pigmei. Nel 1973 nelle regioni dell’Amazzonia venezuelana ripercorre il celebre itinerario fluviale compiuto tra il 1799 e il 1804 dal barone Alexander von Humboldt. Nel 1974 è in Nuova Guinea tra i dani e nel 1975 è sulle Terre Alte della Guyana. Nel 1976 è in Antartide, dove esplora le valli secche McMurdo. Nel 1978 torna in Sudamerica alla ricerca delle sorgenti del Rio delle Amazzoni. Nel 1985-1986 ritorna in Patagonia con due compagni per compiere una spedizione in completa autosufficienza, procurandosi il cibo lungo il percorso e senza mezzi di trasporto. I tre non riescono nell’impresa, ma scalano una vetta inviolata, alla quale sarà conferito il nome di Punta Giorgio Casari, in ricordo di uno dei compagni. Muore a Roma il 13 settembre 2011.

La libertà dell’avventura come ricerca di sé

Raccolgo le mie impressioni su Walter Bonatti riprendendo alcune parti del suo incredibile libro In terre lontane (ed. Dalai, 2008): mi è capitato di trovarlo in libreria per caso e non ho esitato ad acquistarlo perché ha immediatamente suscitato in me un afflato di libertà e un’irrefrenabile voglia di avventura.

Walter Bonatti ha trascorso quasi tutta la vita a contatto con le più remote e incredibili manifestazioni della natura, spinto non soltanto dall’amore per l’avventura, ma anche da un profondo senso di ricerca di sé e della vera essenza umana. La sua musa era la solitudine della condizione di uomo al di fuori della moderna quotidianità sociale e la sua molla il bisogno di tornare a una dimensione più genuina. La ragione della scelta dell’avventura in solitaria era la necessità di “acutizzare la sensibilità e amplificare le emozioni”, di porsi di fronte a una dimensione rara e sconosciuta per l’uomo moderno, che oggi teme la solitudine perché ha paura di riconoscersi e di riconquistare la sua vera essenza.

Bonatti raccontava che “il bello dell’avventura è sognarla, lasciare spazio all’immaginazione, e poi tentare di dare materia e consistenza ai propri sogni”. In questa ricerca, la curiosità è un elemento importante, perché grazie a essa l’uomo ha conosciuto il progresso ed è diventato quello che è. L’avventura compiuta per soddisfare la curiosità non deve però mai essere una fuga, bensì il raggiungimento di qualcosa, l’appagamento del bisogno umano di andare oltre e di capire, sperimentarsi e conoscersi.

Da ragazzo, Bonatti contemplava le cime delle montagne all’orizzonte della Pianura Padana sognando l’insormontabile. Passava ore a fantasticare sulle rive del fiume, trasformando le distese di sabbia e la corrente in deserti e in oceani. Viaggiava con il pensiero a cavallo dei pezzi di legno trasportati dal fiume e amava seguire il volo delle aquile al di sopra del Monte Alben, il suo tetto del mondo. A diciotto anni compì una vera e propria scalata su una parete di roccia e iniziò a considerare l’alpinismo come un’affascinante avventura e un profondo modo di essere e di imparare a conoscersi. Lavorava saltuariamente con il settimanale Mondadori Epoca, realizzando reportage su argomenti riguardanti l’Italia. Fu incaricato di reinventare il giornalismo avventuroso e venne spedito nella Siberia nord-orientale a una temperatura di -70°C.

Lo scopo dei suoi viaggi era la ricerca di un punto di incontro con il mondo selvaggio, per comprenderlo, assimilarlo e trasmetterlo con le parole e le immagini. Fece questa scelta di vita come mezzo migliore per conoscersi, per dialogare con se stesso, per misurarsi rispetto alle decisioni prese e alle imprese compiute. Per lui l’avventura era una spinta personale: nei grandi silenzi e negli sterminati spazi trovava la sua ragione di essere e il suo modo di vivere a misura d’uomo, al contrario dell’uomo moderno, che sta pian piano recidendo il cordone ombelicale con la madre Terra.

Bonatti scoprì alcuni aspetti della storia dei nostri progenitori venendo a contatto con le popolazioni indigene. Gli avventurosi del passato avevano davanti a sé un mondo sconosciuto e ostile, ma lo affrontavano ugualmente, con un sapere elementare e con mezzi limitati, ma con la forza invacillabile della loro determinazione. L’intenzione di Bonatti era proprio quella di calarsi il più possibile nei loro panni e di mettersi in quelle condizioni per risvegliare doti antiche e sentimenti ormai dimenticati. Nell’incontro con gli indigeni, riscopriva la forza, l’ingegno, la serenità, la capacità di sopravvivere in un mondo insidioso e inospitale. Scoprì che grazie a loro ci è possibile misurare le qualità di chi vive in armonia con tutte le cose del creato, un antico principio che ha sempre rappresentato la molla della civiltà. Secondo Bonatti, poiché per noi è molto difficile valicare la nostra condizione di esseri inciviliti, è improbabile che riusciamo a spogliarci della superiorità che proviamo rispetto a ciò che è primordiale e primitivo. Soltanto nell’avventura possiamo scoprire che in noi sono sopite e atrofizzate molte doti naturali, mentre nel primitivo l’intelligenza per soddisfare appieno le proprie esigenze è rimasta più viva e vivace.

Bonatti amava molto cercare un contatto diretto anche con i grandi animali selvaggi, sforzandosi di comprenderne il linguaggio: “Se noi riuscissimo a coniugare il nostro vasto sapere di oggi con l’antica animalità che abbiamo posseduto, quell’eredità ancestrale rimasta in noi assopita, saremmo molto più ricchi di conoscenza e comprensione verso la natura, annientando gli equivoci dei nostri atteggiamenti. L’istinto è un atto riflesso in cui vi è una componente di coscienza, l’eco di un’antica ragione”.

Per Bonatti, “libertà è vivere un’esperienza in una natura straordinaria ed essere nella disposizione fisica e spirituale per recepirla e assimilarla fino ad arrivare a farne parte”: soltanto in quella condizione libera dell’esistenza, possiamo scoprire di trovarci molto al di là dei nostri limiti di comuni mortali, perché saremo sorretti unicamente da una forza incalcolabile. Lui scalava le montagne e scendeva nei fondali marini per vivere la Terra nei suoi più piccoli particolari e per cogliere le più sottili emozioni che il creato poteva offrirgli. A volte non aveva nulla da esplorare o da conquistare, ma soltanto la volontà di trovarsi in solitudine ai confini del mondo e al limite delle terre emerse.

Oggi l’uomo sta dilatando il suo mondo, spostando il limite del possibile, e creandosi nuovi orizzonti: ieri le colonne d’Ercole sembravano insuperabili, oggi i pianeti del sistema solare sono quasi raggiungibili. Tuttavia l’uomo sta vivendo anche una grande confusione di valori e sta rischiando di annullarsi spiritualmente e di soccombere al progresso tecnologico. Una nuova era esplorativa potrebbe ancora nascere e noi potremo vedere più chiaramente quello che cerchiamo e fin dove possiamo arrivare se ci avvalessimo dei soli mezzi umani forniteci dalla natura.

In un mondo nel quale il progresso si è consegnato a una realtà a noi ignota, solo pochi sognatori sono rimasti a vagheggiare visioni di una vita che è resa sempre più labile da innumerevoli ostacoli e ragioni costituite. Resta però affascinante immaginare l’uomo liberato dal conformismo e dal caotico anonimato impostogli dalla società, perché è in quella condizione esistenziale che esso sarebbe nuovamente solo, emotivo, precario, ma anche integro e predisposto a grandi slanci evolutivi. Tra l’uomo e la madre Terra esiste un dialogo profondo e antico che stiamo interrompendo, rischiando di perdere la nostra vera identità, la nostra vitale e gioiosa essenza e la nostra sacra individualità.

3 – LA LIBERTA’ NELL’ARTE

“L’uomo è anche un gabbiano, misterioso e bianco,
in cerca di se stesso, che disegna nel vento
inediti sentieri, inventati, trasparenti.”

Juan Baladàn Gadea

In questo capitolo dedicato all’arte, vorrei riallacciarmi al tema della natura e dell’avventura di libertà ispiratami da Walter Bonatti. Al centro delle mie riflessioni è il dipinto del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich Wanderer ueber dem Nebelmeer (Viandante sul mare di nebbia) realizzato nel 1818. Si tratta di un’opera molto famosa, un inno al Romanticismo, che è stata già oggetto di numerose analisi. Al di là delle impressioni catturate dagli esperti e dai critici d’arte, la mia intenzione è servirmi della poesia per descrivere e condividere con il lettore le emozioni e le sensazioni di libertà che il quadro suscita in me.

Piccoli viandanti di fronte al sublime

Essere soli tra le tempeste della vita
come gabbiani misteriosi
che davanti a sé all’improvviso
scoprono l’infinito.

Un mare di nebbia che attraversa il cielo
e colpisce il cuore dell’uomo
con i suoi fumosi raggi di vento.
In lontananza ripide montagne
ancora da scalare
e un immenso denso di ignoto
e di vita da scoprire.

Un vuoto nascosto da mari nebulosi
percorsi da piccole barche
inghiottite dai colori del vento.
Uno sperone di roccia che dà forza
alla piccolezza e alla vulnerabilità dell’uomo
di fronte all’ignoto del sublime.

La paura di affrontare la vita
e il fascino di un paesaggio maestoso
che sovrasta l’umanità
di chi è fragile di fronte al mondo.
Il coraggio di vivere a testa alta
l’infinito che nessuno conosce,
l’accettazione della propria fragilità
e la forza di affrontare l’inesorabile.

Siamo tutti viandanti
sopra il mare della vita,
insignificanti Ulisse
alla ricerca della conoscenza,
fieri naviganti e coraggiosi avventurieri
alla scoperta del mondo.

La realtà della natura
esiste senza di noi,
ma acquista senso
se c’è qualcuno disposto a scoprirla.
Una natura ostile che compie
il fascino del sublime nel nostro cuore,
lo penetra e lo rispecchia.

Il senso perduto e ritrovato
nell’accettazione del viaggio,
nella libera scelta
di accogliere e di vivere la vita.
L’uomo che si fa roccia,
che assume la forma e lo slancio
della pietra che lo sostiene
e lo spinge verso l’alto,
diventando un tutt’uno con essa.

Sprazzi di panorama che rispecchiano
la sua forte volontà,
e tentano di riassumerne i colori,
resi sbiaditi dal mare che la inghiotte.
È una lotta, la prova
della forza dello spirito di sopravvivenza
che accompagna l’uomo nel suo viaggio.

Un’anima nostalgica sul mare,
una barca scura pronta a salpare,
un gabbiano pensieroso,
pronto a navigare
e ad aprire le ali per volare.
Un essere in procinto
di spalancare le ali verso l’infinito,
alla coraggiosa ricerca dell’inconoscibile.
Un intimo e religioso slancio
verso l’assoluto e l’inesorabile
che caratterizza l’anima del mondo.

Un universo troppo grande da contenere
per il cuore di un uomo,
una sfida senza fine
davanti a un mare di sogni.
Un rettangolo che racchiude
la fumosa instabilità della vita
e che pone al centro
la volontà umana di affrontarla.
Una cornice simbolo
di un’inesorabile stabilità,
una fortezza che richiama l’uomo
al suo dovere di vivere.
Un richiamo verso la vita,
verso la scoperta di un assoluto
fisso ed eterno
che sovrasta la volontà
senza sconfiggerla.

Un inno all’anima romantica che è in noi,
un invito a confrontarsi con la natura
e a scoprire e vivere l’eterno sublime.
Una figura dignitosa e nobile,
interprete ed emblema
di un’elegante e invacillabile volontà
di affrontare la lotta.
Una fermezza di spirito
che accoglie la libertà dello slancio
e la affronta senza riserve.

Un profondo abisso
del quale si conosce solo la nebbia,
il rischio di affrontarlo
e la scommessa di non precipitare.
Un gioco d’azzardo che non si può perdere
in un universo misterioso e senza fine.

Lo specchio perfetto della vita.

4 – LA LIBERTA’ NELLA FILOSOFIA

“Ti hanno chiamato egoista
per il coraggio di agire in base alla tua capacità di giudizio
e di assumerti completa responsabilità della tua vita.
Ti hanno chiamato arrogante
per la tua mente indipendente.
Ti hanno chiamato crudele
per la tua integrità invacillabile.
Ti hanno chiamato antisociale
per la visione che ti ha fatto avventurare per strade inesplorate.”

Ayn Rand, La rivolta di Atlante

Si dice che la filosofia sia la scienza dei forti: una definizione che trovo molto calzante con l’immagine del coraggioso sognatore di libertà. Lo stesso atto di pensiero è un atto di libertà, e la filosofia è quell’attività spirituale autonoma tanto astratta quanto utile all’uomo per definire i suoi modi di pensare, di conoscere e di agire nel mondo, nella vita e nella storia.

La filosofia ha sempre esercitato su di me un certo fascino e una viva curiosità. Se la mitologia è un mare sterminato di immagini e metafore che rappresentano i vizi e le virtù umane, la filosofia per me è un affascinante strumento per indagare il rapporto dell’uomo con il mondo visibile e invisibile e per esercitare quella ragione che è l’espressione più alta del nostro essere umani.

Nei miei studi e nelle mie letture, c’è una scrittrice e filosofa in particolare che ha risvegliato in me l’intuizione del profondo valore che abbiamo in quanto uomini e donne e delle innumerevoli possibilità che la nostra naturale creatività ci offre per ricercare la felicità: Ayn Rand.

Chi era Ayn Rand

La scrittrice americana di origini russe ed ebraiche Alice O’Connor (2 febbraio 1905 – 6 marzo 1982), nata Alisa Zinovyevna Rosenbaum e conosciuta al pubblico con lo pseudonimo di Ayn Rand, è la fondatrice della filosofia oggettivista. Maggiore di tre sorelle nate nella Russia comunista di Vladimir Lenin, dopo la Rivoluzione di Ottobre fugge con la famiglia in Crimea. Si laurea in storia all’università di San Pietroburgo (allora Pietrogrado e poi Leningrado), in seguito studia arti cinematografiche e inizia a scrivere. Dopo aver ottenuto il visto per visitare dei parenti a Chicago, nel 1926 si trasferisce a New York per imparare l’inglese e studiare per diventare sceneggiatrice. Prosegue quindi la sua carriera negli Stati Uniti, e a Hollywood incontra l’attore Frank O’Connor, che diventerà il suo futuro marito. Dopo le prime sceneggiature, nel 1934 scrive il suo primo romanzo inedito Ideal (Ideale) e nel 1936 pubblica il romanzo semi-autobiografico We the Living (Noi vivi), seguito nel 1937 dalla novella Anthem (La vita è nostra), pubblicata l’anno successivo. Negli anni Quaranta inizia il suo attivismo politico negli ambienti conservatori e libertari e incontra i massimi esponenti della Scuola Austriaca di Economia. Il suo primo grande successo diventa il romanzo The Fountainhead (La fonte meravigliosa), terminato nel 1943. Nel 1951 si trasferisce da Los Angeles a New York e incontra lo psicologo Nathaniel Branden con la moglie Barbara e il cugino di lei Leonard Peikoff. In quel periodo organizza incontri filosofici con i tre amici, diventa l’amante di Nathaniel e inizia a scrivere la sua opera più famosa Atlas shrugged (La rivolta di Atlante), pubblicata nel 1957. Nel 1962 Ayn Rand e Nathaniel Branden fondano The Objectivist Newsletter (in seguito The Objectivist) per pubblicare articoli sulla filosofia oggettivista e Rand tiene le sue prime lezioni presso il Nathaniel Branden Institute (NBI). Negli anni Sessanta e Settanta Ayn Rand promuove le sue idee oggettiviste scrivendo saggi e tenendo interventi annuali presso il Ford Hall Forum e nelle università, dove esprime anche le sue posizioni politiche. In seguito al tradimento di Branden con una giovane attrice, interrompe i rapporti con i coniugi Branden. Negli anni Settanta il suo impegno culturale subisce un declino, viene operata per un cancro al polmone e muore tre anni dopo la morte del marito nel 1982, nella sua casa di New York, lasciando la sua eredità materiale e intellettuale a Leonard Peikoff.

La filosofia oggettivista

Oltre alla sua personalità forte e intransigente e a molti altri tratti caratteriali che ritrovo anche in me, in particolare la spiccata intraprendenza, la pungente ironia, la viva curiosità intellettuale, l’amore per l’arte e per la politica (intesa come polis), la volontà di avere un impatto sul mondo, e un approccio alla vita gioioso e combattivo, di Ayn Rand mi ha colpito in particolare la filosofia oggettivista, da lei definita nella sua essenza: “la concezione dell’uomo come essere eroico, con la propria felicità come scopo morale della sua vita, con la realizzazione produttiva come attività più nobile, e la ragione come unico assoluto”.

Nei prossimi paragrafi presenterò la filosofia oggettivista e l’ideale di libertà di Ayn Rand attraverso i suoi romanzi, evidenziando gli aspetti del suo “realismo romantico” che mi hanno maggiormente colpita. La scrittrice affermava: “L’arte è una ri-creazione selettiva della realtà secondo i giudizi di valore metafisici di un artista. Sono una romantica nel senso che presento gli uomini per come dovrebbero essere. Sono una realista nel senso che li colloco qui e ora e su questa Terra.”

Ideale: un ideale di vita al servizio dei sogni

Ideal è il primo romanzo inedito di Ayn Rand, scritto nel 1934 e trasformato in una pièce teatrale nello stesso anno per insoddisfazione dell’autrice, che si rifiutò di pubblicarlo.

Nell’introduzione al libro (Ideal – The Novel and the Play, ed. Penguin Group 2015) Leonard Peikoff spiega la differenza epistemologica tra i due generi letterari: un romanzo si serve solo di concetti per presentare eventi, personaggi e universo; una pièce (o un film) si serve sia di concetti sia di percetti (in filosofia, oggetti percepiti, ovvero le osservazioni degli attori, i movimenti, i dialoghi ecc.). Se da un libro è possibile immaginare la rappresentazione scenica di una storia, un film non lascia immaginare in che modo si potrebbe leggere quella storia. La natura di Ideale e dei suoi personaggi richiede un’esperienza percettiva, un completa immedesimazione dei suoi fruitori nel contesto dell’azione. È proprio la pièce teatrale a creare la percezione dei personaggi e a renderne filosoficamente intuibile il contrasto.

Protagonista della vicenda, che si svolge nell’arco di nemmeno due giornate, è l’attrice Kay Gonda, che incarna l’ideale di vita randiano e appare improvvisamente come un fantasma nella vita dei suoi fan, ciascuno protagonista di un capitolo del romanzo o di una scena della pièce. Dall’uomo di famiglia all’attivista comunista, dall’artista cinico al pastore evangelico, dal playboy fino al ragazzo dall’anima smarrita, una varietà di vite con lo stesso comune denominatore: l’incapacità di vivere l’ideale, quel modello di vita incarnato dall’attrice inarrivabile, un sogno che quando si fa realtà diventa inquietante e spinge alla rinuncia, alla negazione o al suicidio. Sono le vite mediocri di chi ha cercato sicurezza non nell’elevazione del proprio io, ma nella normalità quotidiana, nella spinta al sociale o verso l’inconcepibile.

Alla fine è l’anima smarrita a chiedere all’attrice, come a chiedere a se stessa:

“Sei mai stata in un tempio e visto uomini inginocchiarsi in silenzio, con riverenza, le loro anime elevate a ciò che di più alto possono raggiungere? Lassù dove sanno di essere puliti, e chiari, e perfetti? Quando il loro spirito è il fine e la ragione di tutte le cose? Poi ti sei chiesta perché tutto questo debba esistere solo in un tempio? Perché gli uomini non riescano a portare tutto questo anche nella loro vita? Perché, se riescono a conoscere quell’elevazione, possano ancora voler vivere a un livello inferiore? È ciò che vogliamo vivere, tu e io. E se possiamo sognare, dobbiamo anche vedere i nostri sogni nella nostra vita. Altrimenti… a cosa servono i sogni?”
“Ah, Johnnie, Johnnie, a cosa serve la vita?”
“A nulla. Ma chi l’ha resa così?”
“Chi non sa sognare.”
“No. Chi sa solo sognare.”

(traduzione mia)

Questa stessa anima è l’unica a riuscire a riconoscere il valore della vera vita vissuta, il suo modello irraggiungibile e mai raggiunto, quell’ideale per il quale è disposta a togliersi la vita. È un ideale che negli uomini “normali” rimane nella dimensione platonica del trascendente, un ideale sognato ma non voluto, negato e disconosciuto. È l’ideale che quando si fa reale diventa colpa tangibile in una vita non vissuta secondo gli standard e i valori propri dell’uomo; l’ideale fantasma delle vite degli altri sul palcoscenico dell’esistenza umana.

Noi vivi: l’esaltazione della vita attraverso la morte

Come primo romanzo pubblicato, nel 1936 Ayn Rand scrisse questa semi-autobiografia per esprimere la sua violenta condanna della dittatura, vissuta da lei nei primi anni della sua vita trascorsa nella Russia sovietica e poi dai suoi personaggi, specchi dei suoi familiari, amici e amori. Il titolo originale dell’opera era Airtight (“ermetico”) e indicava in maniera emblematica l’impossibilità per l’uomo di sopravvivere alla dittatura.

In We the Living (A. Rand, ed. Penguin Modern Classics 2009), Leonard Peikoff racconta che il marito Frank O’ Connor e il fratello Nick spinsero Ayn Rand a scrivere il romanzo per far conoscere agli americani gli orrori della dittatura. Fu la prima russa ad aver scritto un romanzo sulle condizioni di vita della nuova Russia. Giovane immigrata in America e non ancora pronta a cimentarsi in un romanzo che racchiudesse il mondo adulto e i suoi ideali di libertà ancora privi di struttura, la scrittrice racconta la vita di tre giovani: Kira, una studentessa universitaria di ingegneria indipendente e appassionata della vita, Leo, un nobile controrivoluzionario, e Andrei, un funzionario del regime idealista che nonostante la sua adesione al comunismo aiuta i due amici.

Per quanto la protagonista assoluta sia Kira per levatura intellettuale e morale, tutti e tre i personaggi incarnano modelli di individui ideali per atteggiamenti e valori. Costretti a vivere in un regime dittatoriale, tre sono le possibilità che spettano a questo genere di personalità: scegliere il suicidio dopo aver scoperto la depravazione del proprio ideale (come fa Andrei); abbandonarsi all’autodistruzione, cercando di rendere sopportabile il divario tra la mente e la forza bruta e annullando una delle due per vivere da morti viventi (come fa Leo); fuggire di nascosto all’estero per rimanere fedeli a se stessi, rischiando la morte (come fa Kira). Nessuna delle tre scelte è vista dall’autrice in maniera negativa, ma cambia la caratterizzazione del personaggio: Andrei viene conquistato dall’ideale ed è sconfitto quando rimane disilluso; Leo si spezza ed è sconfitto perché, non essendo in grado di piegarsi al compromesso, cede; Kira si spezza ma non si rompe, perché muore combattendo per rimanere fedele a se stessa.

In questo romanzo, Ayn Rand colpisce per la sua potente rappresentazione della vita come assioma e più alto valore dell’uomo. Le ultime righe del libro, cariche di emozione e colore, descrivono l’ultimo disperato tentativo della protagonista di oltrepassare a piedi il confine con la Lettonia. Il fragile sogno dell’alba di una nuova vita libera si infrange di fronte all’infinita distesa di una terra ricca di possibilità, ma trasformata in un regno di morte, distruzione e desolazione. La speranza è la nuova primavera a cui si aggrappa un albero sottile che non sopporta più la neve: è la visione di una luce di vita a cui si attacca il gracile corpo di chi ha lottato, ma è rimasto sconfitto dalla dittatura. E nonostante questo, sorride davanti all’immagine di un’alba nuova, che è la prova che un barlume di vita, profondamente nascosto nell’anima, esiste perché è stato possibile:

Giù in lontananza, sotto di lei, un’infinita piana di neve si estendeva fino all’alba. Il sole non c’era ancora. Un fascio di rosa, pallido e giovane, come un soffio di colore, come la nascita di un colore, si alzò sopra la neve brillando, tremando, scorrendo verso un celeste pallido, un’immensità celeste di scintille che luccicavano sotto un velo sottile, come il vago fantasma di un lago che si dissolve nel sole d’estate, come la superficie liscia di un lago con un sole affogato lontano nelle sue profondità. E la neve, al sorgere di quella fiamma liquida, sembrava tremolare, respirare, splendere delicatamente. Lunghi fasci che si estendevano attraverso la collina, ombre che sembravano la luce stessa, una luce più azzurra, più pesante, con angoli pronti a scoppiare in fuochi danzanti.

Un alberello solitario si ergeva in lontananza sulla pianura. Non aveva le foglie. I suoi ramoscelli sottili e radi non avevano raccolto la neve. Si stendeva, carico della vita di una futura primavera, con i suoi fini rami neri, come braccia, verso l’alba che nasceva sopra una terra infinita dove così tanto era stato possibile.”

(traduzione mia)

La vita è nostra: dal “noi” all’”io”

Anthem (A. Rand, ed. Penguin Group 1995, ufficialmente tradotto come La vita è nostra, letteralmente “antifona”) è un romanzo breve del 1938, nel quale Rand immagina che in un futuro indefinito l’umanità, sopraffatta dal collettivismo, perde le tracce della scienza e della civiltà. Il mondo è dominato dalla ristretta ideologia di un sistema totalitario, che organizza e controlla tutte le sfere della vita umana. Non esiste più alcun tipo di individualità e anche i pronomi singolari vengono eliminati dal linguaggio: ogni individuo si riferisce a se stesso con il pronome “noi” e viene chiamato con un nome attribuitogli dallo stato. Il protagonista ventunenne Uguaglianza 7-2521, come gli altri allontanato dai genitori biologici e cresciuto in una casa collettiva, ha un’intelligenza superiore, che però viene disconosciuta dallo stato, il quale sceglie per lui il lavoro dello spazzino. Uguaglianza 7-2521 lo accetta, ma iniziando a ribellarsi ai dettami dello stato e ai moniti dell’amico Internazionale 4-8818, si nasconde ogni sera sotto un tunnel illuminato solo dalla luce di una candela, dove scrive il suo diario e conduce i suoi esperimenti scientifici. Sul lavoro incontra e si innamora di Libertà 5-3000, scappa dalla casa comune e sconta un periodo di prigionia a causa del suo atteggiamento ribelle. Fuggito anche di prigione, Uguaglianza 7-2521 scopre l’elettricità e vuole condividere la sua scoperta con l’umanità, ma incontra l’opposizione del Consiglio Mondiale degli Esperti. Così scappa nella foresta, dove nessuno lo insegue perché è un luogo proibito, e lì ritrova Libertà 5-3000. I due trovano rifugio in una casa di montagna dei Tempi Innominabili, dove grazie ai libri scoprono il pronome “io” e assumono nomi nuovi: Prometeo (la conoscenza) e Gea (la Terra).

L’Io/Ego esaltato dal Prometeo de La vita è nostra è il Sé dell’Individuo, la facoltà della ragione, dalla quale derivano tutte le altre caratteristiche distintive dell’uomo: sentimenti, valori, volontà, individualità, in opposizione a chi è Self-less, letteralmente “senza Sé” (o “altruista” in senso randiano). Il concetto estetico-morale de La vita è nostra non è dunque una resa al misticismo, bensì l’esaltazione del culto dell’individuo, il sacro rispetto dell’uomo e del suo valore, che si deve alla vita sulla Terra. Ne consegue che l’ideale di Uguaglianza si realizza paradossalmente e implicitamente solo nel rispetto della diversità tipica della vita e nella Libertà di esprimerla e dispiegarla.

La fonte meravigliosa: l’individuo contro il mondo

Questo romanzo del 1943 racconta la storia di un architetto intransigente e della sua violenta battaglia contro gli standard convenzionali.

Come afferma Leonard Peikoff nella postfazione del libro (The Fountainhead, A. Rand, ed. Penguin Group 1993), il titolo provvisorio di questo romanzo era Second-hand lives (letteralmente “vite di seconda mano”), per porre l’accento sul modo di vivere degli uomini comuni, incapaci di godere della vita vera. In seguito, Rand cambia il titolo in The Fountainhead, spostando l’enfasi sul protagonista Howard Roark, l’eroe creativo, l’uomo che usa la mente “in prima mano”, diventando così “la fonte meravigliosa” della sua realizzazione.

Howard Roark è l’essere eroico randiano per eccellenza: un individuo dotato della calma completa e invacillabile di chi ha una convinzione di ferro ed è incapace di atteggiamenti drammatici o isterici. La sua è l’accettazione quieta, quasi indifferente, di una mente rapida, acuta e coraggiosa, che non può essere ferita, perché ha compreso da tempo che il mondo non è come lei e ha accettato cosa può aspettarsi da esso. Roark è consapevole che la sconfitta o la delusione fanno parte della lotta ed è concentrato soltanto sull’azione e non sui sentimenti, perché ciò che sente può dipendere solo da se stesso. “Il suo sentimento è una fiamma costante, imperturbata, profonda e nascosta: una profonda gioia di vivere e di conoscere la sua forza, una gioia che non è nemmeno cosciente di essere gioia, perché è così costante, naturale e inalterabile…”. È un uomo che “sarà se stesso a ogni costo: questa è l’unica cosa che voglia davvero nella vita (…) Di conseguenza, la sua vita è chiara, semplice, soddisfacente e gioiosa, anche se dura all’esterno. È in conflitto con il mondo in ogni modo possibile, e in completa pace con se stesso. E la sua principale differenza rispetto al mondo è essere nato privo della capacità di considerare gli altri”, tranne per “una questione di forma e necessità di percorso, come quando si incontrano dei compagni di viaggio.” (traduzione mia)

La rivolta di Atlante: chi è John Galt?

“Chi è John Galt?”: una domanda ricorrente nel romanzo capolavoro di Ayn Rand Atlas shrugged (ed. Penguin Books 1992) del 1957, che avrebbe dovuto intitolarsi The strike (“lo sciopero”). John Galt è l’uomo che ama la sua vita (…) l’uomo che non sacrifica il suo amore o i suoi valori”, una sorta di Prometeo contemporaneo che sottrae alla società gli emblemi della mente umana e i motori del suo funzionamento, per restituire agli uomini la morale perduta. Come Prometeo, John Galt incarna lo spirito di iniziativa che eleva l’individuo a modello morale e mette in atto una sfida al degrado della razionalità umana e dei suoi valori naturali. Se il Prometeo di Esiodo favorisce gli uomini restituendo loro il fuoco della saggezza, il John Galt di Ayn Rand sottrae agli uomini la fonte del loro benessere sociale per renderli coscienti della perdita dei valori insiti nella natura umana. Così Rand, che predilige la filosofia logica di Aristotele, si ispira alla versione platonica di Prometeo, il creatore degli uomini. Prometeo è infatti “colui che pensa prima di agire”, la Mente, l’amante della Vita, l’inventore della scienza e delle arti e l’ispiratore degli uomini, che inganna Epimeteo (in Rand, la società come sovrastruttura che rende gli uomini animali) per favorire le qualità umane più alte (l’uomo con la sua ragione naturale). Nella mitologia greca Prometeo sfida e disubbidisce più volte a Zeus, il quale lo fa incatenare a una rupe per l’eternità; lo stesso destino è riservato a John Galt, simbolo dell’opposizione morale alla tirannide sociale e spirituale. Qui si chiarisce la visione filosofica di Rand, da lei stessa definita “una filosofia per vivere sulla Terra”, del tutto avulsa dalla mistica, intesa nella sua logica sia collettivista che religiosa.

Lo sciopero delle menti del mondo indetto da Galt è quindi una rinuncia al sacrificio di se stessi, alle ricompense e ai doveri non meritati, alla vita come colpa che nega la ricerca della felicità. Galt vuole rendere la società consapevole di ciò a cui ha rinunciato: la vita. La vita appartiene all’individuo e per essere vivi è necessario agire pensando prima alla natura e allo scopo dell’azione. Pensare è un atto di scelta, in quanto l’uomo è un essere dotato di coscienza di volontà. L’uomo è libero di pensare, ma non di sfuggire alla sua natura, al fatto che la ragione è il suo mezzo di sopravvivenza. L’uomo necessita di un codice di valori che ne guida l’azione: il valore è lo scopo, la virtù è azione di fronte a un’alternativa.

L’alternativa nell’universo è soltanto una: esistere o non esistere. L’esistenza della vita non è incondizionata, ma dipende da un corso d’azione specifico, e solo la vita rende possibile il concetto di valore. Poiché l’uomo è più di un animale, non ha un codice di sopravvivenza automatico, ma necessita di agire di fronte ad alternative per scelta di volontà, per dispiegare le possibilità della sua natura creativa.

Il desiderio di vivere sostituisce nell’uomo l’istinto di autoconservazione animale, ma non gli dà la coscienza necessaria per vivere: l’uomo ottiene coscienza e sceglie come agire tramite il pensiero. In questo, l’uomo è libero di scegliere di essere razionale o animale. Tuttavia, lo standard di valori, o il Bene, per natura resta la Vita, e male è ciò che la distrugge. In questo senso, l’amore per la vita non coincide con la paura della morte, in quanto essa non dà la conoscenza necessaria per vivere, ma è la ragione che diventa scelta che diventa azione che diventa realizzazione. La vita stessa è standard di moralità e scopo dell’azione, altrimenti lo standard diventa la non-esistenza, la negazione della vita, la morte.

Condizione di successo è la felicità, lo stato di coscienza che viene dal raggiungimento dei valori; in questo, l’individuo è un fine di per sé e la felicità è il suo scopo morale individuale più alto. Desidera veramente vivere soltanto l’uomo che vuole pensare e quindi rispondere a un codice di moralità necessario per la sua autoconservazione. Il valore che gli altri possono offrire è il lavoro della loro mente e l’arbitro delle controversie tra individui è sempre la realtà.

Secondo la logica aristotelica, “A è A”: l’esistenza esiste. In altre parole, esiste qualcosa che qualcuno percepisce in quanto dotato di coscienza (la facoltà di percepire ciò che esiste). Se nulla esiste, non esiste coscienza: seguendo la logica aristotelica, gli assiomi randiani (o, come Ayn Rand preferiva definirli, “oggettivisti”) sono esistenza (identità) e coscienza (identificazione). Tutto il pensiero è un processo di identificazione e integrazione e la logica è l’arte dell’identificazione non contraddittoria. Giungere a una contraddizione significa dunque confessare un errore di pensiero, il quale nega che A sia A, ed è l’origine del male in quanto abbandono della ragione, negazione della realtà e dell’esistenza. Verità è riconoscimento della realtà e la ragione, l’unico mezzo di conoscenza, è l’unico standard di verità dell’uomo. Rand considera la ragione l’unico giudice della verità e lo stesso processo di pensiero è un processo morale, quindi l’atto eroico è compiuto dall’uomo che si assume la responsabilità di pensare. Lo spirito è la coscienza e la libera volontà è libertà della mente di pensare o non pensare, è la scelta che controlla le scelte di vita e che determina il carattere. Ne consegue che il vizio non è ignoranza, ma rifiuto di pensare e sapere per sfuggire alla responsabilità di giudizio, che nega l’esistenza e non riconosce la realtà. La vita è quindi un valore da acquistare e il pensiero è la moneta che lo acquista.

L’etica è una libera scelta razionale che non accetta imposizioni. Quali sono quindi i valori dell’uomo che sceglie la Vita? La ragione (strumento di conoscenza), lo scopo (la scelta della felicità), l’autostima (la certezza che la mente sa pensare e che il soggetto merita la vita). Quali sono le virtù? Razionalità (l’esistenza esiste e nulla può alterare la verità), indipendenza (riconoscimento della propria responsabilità di giudizio), integrità (non è possibile ingannare coscienza ed esistenza, quindi coraggio è essere veri alla propria coscienza), onestà (l’irreale è irreale e nulla è valore se ottenuto con l’inganno; è la virtù più “egoista” perché è il rifiuto di sacrificare la realtà dell’esistenza alla ridotta coscienza degli altri), giustizia (non è possibile ingannare il carattere dell’uomo o della natura, quindi un individuo va giudicato e trattato per ciò che è), produttività (accettazione della moralità, scelta di vita, creatività umana che viene da una mente pensante), orgoglio (l’individuo è il suo valore più alto e questo va guadagnato: ogni risultato è aperto, ciò che lo rende possibile è la creazione del proprio carattere; precondizione dell’autostima è l’egoismo dell’anima che desidera il meglio per raggiungere la perfezione morale).

L’etica oggettivista nega l’uso della violenza, in quanto interporre questa minaccia tra un uomo e la sua percezione della realtà è negare i suoi mezzi di sopravvivenza, la sua capacità di vivere, quindi forza e mente sono opposti. Rand nega la religione, in quanto presuppone uno standard che va oltre la comprensione razionale, così come la società, in quanto presuppone uno standard che va oltre il diritto di giudizio.

L’amore è espressione dei valori di qualcuno, la maggiore ricompensa che si ottiene per le qualità morali raggiunte, il prezzo emotivo pagato da qualcuno per la gioia che riceve dalle virtù di un altro. L’egoismo oggettivista, inteso come difesa dei propri interessi razionali e non come soddisfazione dei desideri irrazionali altrui, non esclude il prossimo, anzi, lo valorizza: amare è dare valore, perché solo un individuo razionalmente egoista è un individuo capace di autostima e quindi di stima e amore per gli altri.

Da qui scaturisce una nuova definizione del sacrificio come rinuncia ai valori: in altre parole, non è sacrificio lavorare duramente per raggiungere i propri obiettivi, e non è sacrificio rinunciare a ciò che non si vuole e che per sé non ha valore. Per raggiungere la virtà, si deve voler vivere, amare la Vita, bruciare di passione per lo splendore della Terra. La materia è solo uno strumento dei valori umani e la virtù non è servire il vizio e immolarsi per chi non la riconosce.

La perfezione morale non è il grado di intelligenza, ma il pieno e costante uso della mente; non è la vastità della conoscenza, ma l’accettazione della ragione come assoluto. In una logica giusnaturalista, i diritti sono concetti morali, condizioni di esistenza richiesti dalla natura umana per la sua sopravvivenza, e non esistono se privati del diritto di essere tradotti in realtà. Ne consegue che i diritti umani non sono superiori ai diritti di proprietà; la fonte dei diritti di proprietà è la legge della causalità: proprietà e ricchezza sono prodotte dalla mente e dal lavoro umano. Non esiste ricchezza senza intelligenza e l’intelligenza non può essere costretta a produrre. I prodotti di una mente si ottengono solo alle condizioni di chi li ha prodotti e li possiede, tramite il consenso di volontà che si esprime nell’atto di scambio. Pertanto l’esistenza sociale consente di ottenere due grandi valori: la condivisione della conoscenza e lo scambio attraverso la divisione del lavoro. Questo è possibile soltanto se l’uomo è razionale, produttivo e indipendente e se vive in una società razionale, produttiva e libera (per approfondire l’etica oggettivista, consiglio The virtue of selfishness, A. Rand, ed. Penguin Group 1964).

5 – LA LIBERTA’ NELLA LETTERATURA

“La libertà è, nella filosofia, la ragione;
nell’arte, l’ispirazione;
nella politica, il diritto.”

Victor Hugo

Scriveva Ayn Rand nella sua prefazione al romanzo Novantatré (1872) di Victor Hugo, il padre del Romanticismo francese:

La letteratura romantica è nata solo nell’Ottocento, quando la vita umana era politicamente più libera che negli altri periodi della storia, e quando la cultura occidentale rifletteva principalmente l’influenza di Aristotele: la convinzione che la mente dell’uomo è capace di affrontare la realtà. Le idee dei romantici erano dichiaratamente distanti da quelle degli aristotelici, ma il loro senso della vita era l’erede di quella forza liberatrice. L’Ottocento vide sia la nascita sia il culmine di una fila illustre di grandi scrittori romantici. E il più grande tra questi fu Victor Hugo…

(A. Rand, The Romantic Manifesto, ed. Penguin Group 1975, traduzione mia)

L’enorme ammirazione che la scrittrice russa nutriva per Hugo artista non coincideva con quella che nutriva per Hugo pensatore. Rand conobbe i romanzi di Hugo da adolescente, quando stava ancora vivendo l’incubo del comunismo in Russia. Lo considerava “il più grande romanziere della letteratura mondiale” per la grandezza umana e spirituale dei suoi personaggi e per il loro radicale individualismo, che si esprimeva nella coerente fedeltà ai valori personali e nell’integrità, nel coraggio e nella dedizione che dimostravano nel volerli portare avanti a qualunque costo. Non lo apprezzava parimenti come pensatore perché secondo lei Hugo professava un credo che contraddiceva l’ideale inconscio che avvertiva ed esprimeva nelle sue opere. Non rifletteva sulle premesse filosofiche e psicologiche che avrebbero portato gli uomini comuni alla propria auto-realizzazione, grazie a una levatura spirituale paragonabile a quella degli eroi dei suoi romanzi. L’Hugo pensatore riteneva le emozioni superiori alla ragione, idealizzava un progresso umano illimitato e automatico e condannava la povertà e l’ignoranza come uniche cause della cattiveria dell’uomo. Tuttavia non si domandava quali fossero i mezzi per abolire la povertà e realizzare il suo ideale di libertà umana e di fratellanza universale. Non si soffermava sull’enorme potere della ragione e si affidava fin troppo a un dio simbolo della perfezione umana, che l’uomo rimaneva incapace di raggiungere. La grandezza del senso della vita suo e dei suoi personaggi non era così mai in grado di concretizzarsi nella vita reale, come se per l’uomo integro non ci fosse modo di realizzare pienamente se stesso sulla terra, ma il massimo a cui potesse aspirare era il cielo.

Ho scoperto la letteratura di Ayn Rand molto dopo rispetto a quella di Victor Hugo e mi sono innamorata di entrambi. La forza e la gioiosità del loro ideale umano è una commovente fonte di ispirazione per riflettere sul profondo senso della vita e sull’imprescindibile significato della libertà. La prima mi ha colpita per la passione quasi religiosa con cui esalta la vita umana e per l’invacillabile intransigenza con cui trasmette i valori, i principi e i mezzi che consentono all’uomo di realizzare il suo ideale di esistenza terrena. Il secondo mi ha emozionata per l’istinto rivoluzionario e la forza poetica e prettamente romantica con la quale caratterizza la psicologia dei suoi personaggi. Un eroismo individualista concreto nella prima, un eroismo universale astratto nel secondo. L’arte di entrambi si cala nella dimensione dell’ideale. Quello che cambia è la forza della ragione nella prima rispetto alla forza dell’emozione nel secondo, e la gloriosa realizzazione di quell’ideale nella prima rispetto alla tragica sconfitta della grandezza umana nel secondo. In poche parole: Ayn Rand insegna a vivere, Victor Hugo insegna a sognare.

Date queste premesse, tra i miei sognatori di libertà non avrei potuto non citare anche Hugo. I suoi romanzi più conosciuti sono indubbiamente Notre-Dame de Paris (1831) e Les misérables (I miserabili, 1862), autentici capolavori che ho amato per la loro forza poetica, spirituale e umana. Hugo mi ha fatto vivere con la libertà di una zingara pericoli e avventure tra i vicoli della Parigi del Quattrocento. Mi sono fatta sorprendere dalla bellezza e dalla spiritualità dell’arte gotica della cattedrale, che ricordo citando le sue parole (Notre-Dame de Paris. 1482, V. Hugo, traduzione ufficiale tratta dal web): (…) vasta sinfonia di pietra, per così dire; opera colossale di un uomo e di un popolo, unica e al tempo stesso complessa come l’Iliade e i Romanceros di cui è sorella; prodotto prodigioso del contributo di tutte le energie di un’epoca, ove su ogni pietra si vede impressa in cento modi diversi la fantasia dell’operaio disciplinata dal genio dell’artista; sorta di creazione umana, in poche parole, potente e feconda come la creazione divina a cui sembra aver strappato il suo duplice carattere: la varietà e l’eternità.” Mi ha fatto capire le difficoltà degli umili nella Francia della Restaurazione e l’impeto rivoluzionario di chi è stato privato della libertà, facendomi immedesimare nell’integrità e nel coraggio dei giusti e facendomi sognare il fascino di viaggiare nel tempo.

In questo capitolo ho scelto di parlare di lui non attraverso i suoi romanzi, bensì attraverso la poesia, una poesia che scrisse lui, un urlato richiamo alla libertà: Liberté! (tratta dal web: Poésie française – 1er site français de poésie). Segue la mia traduzione.

Liberté!

De quel droit mettez-vous des oiseaux dans des cages ?

De quel droit ôtez-vous ces chanteurs aux bocages,
Aux sources, à l’aurore, à la nuée, aux vents ?
De quel droit volez-vous la vie à ces vivants ?
Homme, crois-tu que Dieu, ce père, fasse naître
L’aile pour l’accrocher au clou de ta fenêtre ?
Ne peux-tu vivre heureux et content sans cela ?
Qu’est-ce qu’ils ont donc fait tous ces innocents-là
Pour être au bagne avec leur nid et leur femelle ?

Qui sait comment leur sort à notre sort se mêle ?
Qui sait si le verdier qu’on dérobe aux rameaux,
Qui sait si le malheur qu’on fait aux animaux
Et si la servitude inutile des bêtes
Ne se résolvent pas en Nérons sur nos têtes ?
Qui sait si le carcan ne sort pas des licous ?
Oh! de nos actions qui sait les contre-coups,
Et quels noirs croisements ont au fond du mystère
Tant de choses qu’on fait en riant sur la terre ?
Quand vous cadenassez sous un réseau de fer
Tous ces buveurs d’azur faits pour s’enivrer d’air,
Tous ces nageurs charmants de la lumière bleue,
Chardonneret, pinson, moineau franc, hochequeue,
Croyez-vous que le bec sanglant des passereaux
Ne touche pas à l’homme en heurtant ces barreaux ?

Prenez garde à la sombre équité. Prenez garde !
Partout où pleure et crie un captif, Dieu regarde.
Ne comprenez-vous pas que vous êtes méchants ?
À tous ces enfermés donnez la clef des champs !
Aux champs les rossignols, aux champs les hirondelles ;
Les âmes expieront tout ce qu’on fait aux ailes.
La balance invisible a deux plateaux obscurs.
Prenez garde aux cachots dont vous ornez vos murs !
Du treillage aux fils d’or naissent les noires grilles ;
La volière sinistre est mère des bastilles.
Respect aux doux passants des airs, des prés, des eaux !
Toute la liberté qu’on prend à des oiseaux
Le destin juste et dur la reprend à des hommes.
Nous avons des tyrans parce que nous en sommes.
Tu veux être libre, homme ? et de quel droit, ayant
Chez toi le détenu, ce témoin effrayant ?
Ce qu’on croit sans défense est défendu par l’ombre.
Toute l’immensité sur ce pauvre oiseau sombre
Se penche, et te dévoue à l’expiation.
Je t’admire, oppresseur, criant: oppression !
Le sort te tient pendant que ta démence brave
Ce forçat qui sur toi jette une ombre d’esclave
Et la cage qui pend au seuil de ta maison
Vit, chante, et fait sortir de terre la prison.

Libertà!

Che diritto avete di mettere gli uccelli in gabbia?

Che diritto avete di privare di questi cantori le siepi,
Le sorgenti, l’alba, lo stormo, i venti?
Che diritto avete di rubare la vita ai vivi?
Uomo, pensi che Dio, questo padre, faccia nascere
L’ala per appenderla al chiodo della tua finestra?
Non puoi vivere felice e contento senza?
Cosa hanno fatto tutti quegli innocenti
Per stare in prigione con il loro nido e la loro compagna?

Chi sa come il loro destino sia legato al nostro?
Chi sa se il verdone che portiamo via dai rami,
Chi sa se il male che facciamo agli animali
E se l’inutile schiavitù delle bestie
Non diventeranno dei Nerone sulle nostre teste?
Chi sa se le catene non si spezzerano?
Oh! delle nostre azioni chi conosce le conseguenze,
E quali oscure traversate celano in profondità il mistero
Quante cose facciamo ridendo sulla terra?
Quando chiudete sotto una rete di ferro
Tutti quei bevitori di azzurro fatti per ubriacarsi d’aria,
Tutti quegli affascinanti nuotatori della luce blu,
Cardellini, fringuelli, passeri, ballerine,
Pensate che il becco insanguinato dei passerotti
Non disturbi l’uomo colpendo quelle sbarre?

Attenzione al Sangue d’Armenia. Fate attenzione!
Ovunque un prigioniero pianga e gridi, Dio guarda.
Non capite che siete malvagi?
A tutti questi reclusi date la chiave dei campi!
Ai campi gli usignoli, ai campi le rondini;
Le anime espieranno tutto ciò che facciamo alle ali.
La bilancia invisibile ha due piatti oscuri.
Attenzione alle celle di cui adornate le vostre pareti!
Dal traliccio di fili d’oro nascono le grate nere;
La voliera sinistra è la madre delle prigioni.
Rispetto ai leggeri passeggeri dell’aria, dei prati, delle acque!
Tutta la libertà che togliamo agli uccelli
Il destino severo e giusto la toglie agli uomini.
Abbiamo i tiranni perché noi siamo tiranni.
Vuoi essere libero, uomo? e con quale diritto, visto che hai
In casa tua il prigioniero, questo terribile testimone?
Ciò che crediamo indifeso è difeso dall’ombra.
Tutta l’immensità su questo povero uccello scuro
Si china e si dedica all’espiazione.
Ti osservo, oppressore, gridare: oppressione!
Il destino ti sorregge mentre la tua follia si fa coraggio
Quel detenuto che su di te getta un’ombra di schiavo
E la gabbia appesa all’uscio della tua casa
Vive, canta e fa uscire dalla terra la prigione.

6 – LA LIBERTA’ NEL CINEMA

“- Il mondo non è tutto tuo, ricordatelo bene,
che non l’hai costruito te come la macchina! – Allora forse dovrei.
– Fare cosa?
– Costruire un mondo tutto mio.”

Elio Germano e Matilda De Angelis
nei ruoli di Giorgio Rosa e Gabriella Clerici
nel film L’incredibile storia de L’Isola delle Rose

La storia che sto per raccontare rappresenta uno di quei casi in cui la realizzazione di un sogno di libertà ha superato la fantasia.

Il protagonista di questa incredibile vicenda è Giorgio Rosa, un giovane ingegnere bolognese, che nel 1968 costruì uno stato tutto suo su una piattaforma in mezzo al mare, al di fuori delle acque territoriali italiane: l’Isola delle Rose.

La sua storia è stata raccontata dal film del 2020 L’incredibile storia de L’Isola delle Rose diretto da Sydney Sibilia e prodotto da Matteo Rovere, che ha visto come attori principali Elio Germano e Matilda De Angelis. Ma non stiamo parlando soltanto di cinema: il film è ispirato a una vicenda di vita reale, che è stata dettagliatamente raccontata nel documentario Isola delle Rose – La libertà fa paura prodotto da Cinematica con regia di Stefano Bisulli e Roberto Naccari (https://www.youtube.com/watch?v=3f3hf03esII).

L’Isola delle Rose

La vicenda dell’Isola delle Rose ha inizio in Italia nel periodo della Ricostruzione, quando, ormai trascorse le due guerre, c’era molto turismo e voglia di investire in nuovi progetti.

Nel 1950 Giorgio Rosa si laurea in ingegneria all’Università di Bologna e nel 1960 si sposa con Gabriella Clerici. Nello stesso anno i due coniugi fondano la SPIC (Società per Iniezione Cemento), della quale lei diventa presidente e lui direttore tecnico. Così Rosa presenta alla Capitaneria di Porto di Rimini la richiesta per fare delle sperimentazioni in mare. La sua idea è dare seguito ai lavori di calcolo e progettazione di una piattaforma che doveva essere costruita al largo della costa. L’infrastruttura è costituita da un traliccio di 12×12 metri e 18 metri di lunghezza, che doveva essere portato in acqua legato e rimorchiato a due barconi. L’idea di Rosa, infatti, era quella di creare la struttura di base a terra per poi collocarla in mare, per risparmiare tempo e denaro.

La procedura di costruzione delle fondamenta va incontro a vari ostacoli, perché l’Adriatico è una zona soggetta a forti venti. Nell’inverno del 1965, quando le operazioni di ancoraggio non sono ancora iniziati, una violenta mareggiata travolge la struttura, mandando all’aria cinque anni di progetti e di lavori. Rosa non si arrende davanti alle difficoltà, ma riporta fuori la piattaforma ripetendo senza sosta i lavori, con il supporto della moglie e del figlio Lorenzo. Dopo due anni, gli attracchi per le barche e il piano di calpestio diventano finalmente praticabili e mancano soltanto le parti in muratura.

Nel 1967 l’isola raggiunge l’autosufficienza idrica, perché perforando il fondale per 280 metri Rosa riesce a trovare una falda d’acqua potabile. Perseguendo il suo intento di costruire l’isola, Rosa si spinge però oltre i permessi accordati dalla Capitaneria, tanto che riceve l’ordine di sospendere i lavori. L’ingegnere contravviene agli ordini, in quanto la piattaforma si trova a più di 700 metri oltre le 6 miglia marine, ovvero al di fuori delle acque territoriali italiane.

Poiché la torre del pozzo e altre strutture della piattaforma sono ormai visibili dalla costa, si inizia già a parlare del mistero dell’isola: c’è chi si chiede se sia una struttura per alberghi, per attività commerciali, oppure per un casinò. Ciò che preoccupa la gente del posto, nonché le autorità locali e il Governo italiano, è la possibilità che si ripeta l’esperienza dei casinò, del gioco d’azzardo e dei primi night-club. Il Governo della Democrazia Cristiana e le gerarchie cattoliche avevano già tentato di arginare gli ostacoli alla morale pubblica, temendo che sorgessero circoli privati, radio e televisioni pirata, in risposta ai cambiamenti sociali dell’epoca. Poiché il 1968 è il periodo delle tensioni sociali e politiche, del mondo spaccato in due dalla guerra fredda, e delle manifestazioni di piazza, c’è anche chi pensa che l’isola sia opera delle potenze straniere, data la particolare posizione sul mare Adriatico, a metà strada tra il mondo occidentale e quello orientale.

Una volta costruita l’isola, andava fatto lo stato. Determinante per la decisione di dare all’Isola delle Rose una lingua ufficiale è l’incontro dell’ingegner Rosa con il missionario francescano bolognese Albino Ciccanti, il quale era il punto di riferimento per gli esperantisti riminesi negli anni Sessanta. Grazie alle particolari caratteristiche dell’esperanto (una lingua internazionale con radici nate da altre lingue, una grammatica semplicissima composta da 16 regole, e una pronuncia molto semplice) Rosa pensa proprio che possa diventare la lingua ufficiale del suo nuovo stato.

L’ingegnere detta così i principi della Costituzione del Libera Teritorio de la “Insulo de la Rozoj”: il 1 maggio 1968 viene così proclamata l’indipendenza dell’Isola delle Rose, un nuovo stato avente come territorio una piattaforma sul mare di 400 m² di superficie, come inno nazionale un’aria de L’olandese volante di Wagner, e come bandiera quella della prima Repubblica esperantista del mondo. Rosa pensa anche di dotare la sua isola di un Governo, nominando un presidente del consiglio e i vari ministri tra colleghi, amici e familiari. Il passo successivo è ora quello di coniare una nuova moneta ed emettere i francobolli dell’isola.

Rosa coinvolge nell’avventura l’amico Pietro Bernardini e la coppia Franca Serra e Luciano Ciavatta, che si trasferiscono sull’isola per costruire un bar, i primi negozi e un ufficio postale. A quei tempi, la stampa e le voci che girano sul nuovo stato stimolano la curiosità della gente del posto e dei turisti: la piattaforma di Rosa è diventata la novità dell’estate del 1968! Rimini allora conta 1 milione di turisti, dei quali circa la metà stranieri, inoltre il 1968 è l’anno della prima traversata dell’Adriatico da Pola a Cervia sugli sci d’acqua: l’autore dell’impresa è un tedesco di nome Wolfgang Neumann. In seguito all’incontro con Rosa, Neumann diventa ambasciatore di Germania, fungendo da intermediario sull’isola per i contatti con la stampa estera.

Nel giugno 1968 Giovanni Leone diventa il Presidente del Consiglio incaricato e si insedia il governo della Democrazia Cristiana. Preoccupato per le sorti della morale sociale italiana, il Governo invia mezzi navali delle varie forze di polizia, i quali, salpando dai porti di Venezia e Ancona, si dirigono verso Rimini per occupare militarmente la piattaforma. Mentre l’ingegnere cerca di recarsi sull’isola, la sua barca viene intercettata da una motovedetta e gli viene impedito di salire. Una volta allontanata la coppia di amici di Rosa, l’unico a rimanere sulla struttura è Pietro Bernardini, il quale viene tenuto in stato di fermo. Rosa lancia così un appello al Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e alle Nazioni Unite e assume un team di avvocati. Mentre nel Parlamento italiano si parla di Isola delle Rose come di “stato burletta”, l’opera di Rosa riceve attestati di stima e solidarietà da mezza Europa.

Il grande argomento di discussione tra le autorità è la distinzione tra proprietà e sovranità: l’ingegnere ha la proprietà dell’isola, ma non la sovranità, la quale è esercitata da uno stato su un territorio. Inoltre, per il diritto internazionale, al di fuori delle acque territoriali la sovranità di uno Stato si attenua, ma non si arresta. Lo Stato italiano interpreta la normativa esercitando il potere su una zona “economica esclusiva” di 200 miglia dalla costa, giustificando così l’occupazione militare dell’isola al fine di impedire la costruzione di un nuovo stato indipendente.

Per riprendersi la sua isola, Rosa tenta di partecipare all’incursione guidata da Guglielmo Martelli, approfittando della confusione creata da una gara internazionale di vela. Presto la Capitaneria di porto comunica alla SPIC un decreto ingiuntivo per demolire la piattaforma e Rosa, per bloccare il provvedimento, fa ricorso al Consiglio di Stato. Durante le indagini e le ispezioni, nell’autunno del 1968 Rosa e la moglie insieme a Bernardini riescono finalmente a risalire sull’isola; quest’ultimo viene in seguito costretto a lasciare l’Italia a causa delle pressioni ricevute della stampa. Il Consiglio di Stato emette la sentenza definitiva di abbattere l’isola in base alla Convenzione di Ginevra, la quale stabilisce che l’alto mare è aperto alla navigazione di tutti gli Stati e nessuno può pretendere di sottometterne una parte qualsiasi alla propria sovranità. Così la marina militare programma la demolizione della piattaforma con gli esplosivi. Una volta eliminato il piano di calpestio e il pavimento, rimangono da demolire i piloni, ma quasi per uno scherzo del destino, il mare agitato non permette l’intervento della marina, ma seppellisce esso stesso i due pilastri. La realtà del sogno di Rosa finisce qui, ma il suo sogno di libertà continua nei suoi ideali, perché “la libertà è un’utopia e solo i forti possono essere liberi”.

Nella versione cinematografica, dai toni goliardici e romanzati, il Ministro dell’Interno Francesco Restivo informa Rosa personalmente prima di bombardare la piattaforma. Così Rosa rientra sull’isola appoggiato dagli amici, che sono riusciti a non farsi corrompere dal Governo. Il comandante della marina rinuncia a cannoneggiare l’isola occupata, che viene invece minata e fatta saltare in aria una volta recuperati i sei governatori, mentre nei palazzi del potere avviene il passaggio di consegne tra Giovanni Leone e Mariano Rumor. Nel film è Rosa stesso ad andare di persona a Strasburgo per presentare ricorso al Consiglio d’Europa. Alla fine, il Consiglio d’Europa si rifiuta di pronunciarsi sulla questione giudicandola un contenzioso ristretto a due entità sovrane e riconoscendo solo implicitamente le pretese di indipendenza dell’isola. Per evitare future controversie, le Nazioni Unite spostano il confine delle acque territoriali da 6 a 12 miglia dalla costa.

Esempi di isole di libertà

La storia recente è ricca di vicende simili a quella dell’Isola delle Rose.

Per esempio, un altro caso emblematico di costruzione di un’isola di libertà è stato quello del principato di Sealand, realizzato dal militare e conduttore radiofonico Paddy Roy Bates, il quale occupò una struttura antiaerea abbandonata dall’esercito inglese dopo la seconda guerra mondiale, al largo delle coste del Suffolk, proclamandola stato indipendente. A seguito del fuoco della marina inglese, il caso fu archiviato, in quanto la cosiddetta Roughs Tower si trovava in acque territoriali. A differenza dell’Isola delle Rose, il principato di Sealand andò avanti e negli anni Novanta riuscì a emettere addirittura passaporti. Nel 1999 Bates si ritirò in Inghilterra, trasferendo il titolo di principe al figlio Micheal, prima di morire nel 2012. Tra il 2018 del 2019 il principato di Sealand è stato oggetto di richieste di cittadinanza dei cittadini britannici contrari al Brexit.

Un altro esempio di stato indipendente fu la Repubblica di Cospaia, un microstato nato per caso nel 1441, a causa di un errore nel tracciamento dei confini fra lo Stato Pontificio e la Repubblica di Firenze, e rimasto in vita fino al 1826.

Altre comunità autonome sorte di recente sono la Laissez-Faire City in Costa Rica, il Villaggio Arcadia sulle colline romagnole, la Federazione di Damanhur in Piemonte, il Free State Project in Montenegro, e la Repubblica Libera di Liberland sulla riva occidentale del Danubio, al confine tra la Serbia e la Croazia.

Insomma, la spinta dell’uomo verso l’indipendenza e la libertà è un fuoco che divampa inarrestabile e un sogno vivo e reale che nessun potere è mai riuscito fino in fondo a spegnere o a disperdere tra le nebbie del tempo e della storia.

7 – LA LIBERTA’ NEL DIRITTO

“L’anima è libera, perché dotata di ragione (…).
Quanto più la ragione è perfezionata,
tanto più intimamente è possibile penetrare
nella conoscenza del diritto naturale, mentre,
quanto più l’uomo ha una ragione imperfetta,
tanto più grossolana sarà la sua conoscenza di tale [diritto].”

Christian Wolff

Parlare di libertà parlando di legge può sembrare un ossimoro e una contraddizione in termini. Invece saremo sorpresi dallo scoprire che il diritto, preso nella sua essenza più naturale, logica e intuitiva, colta dall’esercizio di una ragione pura, intrinseca nell’anima umana (come ci suggerisce il filosofo e giurista Christian Wolff), coincide perfettamente con la libertà intesa come libero arbitrio non slegato dalla responsabilità.

I concetti che seguono sono il risultato di alcune lezioni che ho appreso da personalità del mondo filosofico, storico e giuridico, alcune incontrate di persona in conferenze o seminari, altre conosciute sui libri (fonti scritte: Introduction to Objectivist Epistemology, A. Rand, ed. Penguin Group 1990; La gabbia delle idee, Il dito nell’occhio, ed. Capire 2019), ma tutte portatemi dalla vita in vari momenti della mia personale ricerca sul significato della libertà.

Riassumo i miei appunti tentando di semplificare i concetti, con l’intento di offrire spunti di riflessione alternativi, senza la pretesa di essere esaustiva né tantomeno di pormi come un’esperta di diritto.

Azione umana, diritto, linguaggio

Nel 1949 l’economista Ludwig von Mises codificò la prasseologia come scienza dell’azione umana, procedendo per assiomi (postulati indimostrabili ma incontestabili): l’azione umana è un fondamento, in quanto è impossibile non agire; qualsiasi tipo di interazione dell’uomo con l’ambiente è un’azione e un tentativo di modificare la realtà esterna con lo scopo di raggiungere uno stato finale preferibile.

Il diritto è l’azione umana finalizzata a regolamentare la violenza stabilendo quando essa è consentita e quando no, ovvero è un’azione verbale volta a regolamentare e a indirizzare le azioni altrui, anche mediante la minaccia o l’applicazione della violenza.

Il diritto, esprimendosi con la comunicazione verbale, è necessariamente una funzione del linguaggio.

Il linguaggio è espressione del pensiero e della coscienza. Il pensiero è un assioma, una condizione umana insopprimibile la cui negazione comporta una contraddizione logica. Secondo lo psicologo Julian James, la mente umana funziona con la costituzione dell’autocoscienza, che è appropriazione razionale di se stessi e del proprio corpo. Le origini prasseologiche sono la proprietà di se stessi (l’Io) e la progressiva appropriazione di sé attraverso la coscienza (il pensiero).

Il linguaggio è la struttura del pensiero, un accordo sociale attraverso il quale l’uomo come società si appropria di sé e del mondo, dando dei nomi agli oggetti della realtà e comunicando con gli altri.

La “disputa sugli universali” pone il problema del rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà e riguarda l’essere dei concetti generali, la definizione della natura e della fonte delle astrazioni, e la determinazione del rapporto tra i concetti e i dati percettivi. Varie scuole filosofiche hanno tentato di dare una soluzione al problema degli universali, giungendo a conclusioni molto diverse e di grande impatto, anche su diverse visioni del diritto.

Giusnaturalismo e giuspositivismo

Due sono gli approcci per costituire le regole del diritto: il giusnaturalismo e il giuspositivismo.

In un sistema giusnaturalista, la legge è il limite non arbitrario al potere coercitivo, mentre in un sistema giuspositivista, è il potere coercitivo a limitare la legge.

Il giusnaturalismo deriva dal diritto romano e dai diritti barbarici, e si sviluppa in seguito sotto forma di diritto continentale e common law. Il diritto romano non aveva il compito di attenersi a norme prescrittive e non era il prodotto di una legislazione parlamentare come la conosciamo oggi. Basandosi sul principio “non nuocere”, riconosceva e assegnava a ciascuno la proprietà privata ed era “l’arte del buono e dell’equo”. Era l’opera di giureconsulti chiamati da due o più parti in conflitto per risolvere e appianare una disputa, dove l’accordo raggiunto costituiva il precedente giudiziario al quale riferirsi in fattispecie analoghe. Era il diritto naturale nato con la cultura greca classica (ragione naturale e principi eterni), sviluppato dalle scuole giuridiche medievali e dalla tradizione giudaico-cristiana (razionalità umana e volontà di Dio, che creò l’uomo a sua immagine e somiglianza), ripreso nel dibattito nell’ambito del diritto sulla guerra, trattato da Thomas Hobbes e John Locke, e infine recuperato nel secondo dopoguerra.

Il giuspositivismo deriva dal diritto romano o Corpus iuris, che prevedeva che qualsiasi decisione dell’imperatore fosse legge. Da questo è derivato l’assolutismo e in seguito il primato della legislazione nei moderni stati democratici, i cui ordinamenti giuridici si basano su un principio di effettività, ovvero funzionano per generale accettazione e correttezza procedurale. A seguito degli orrori dei regimi totalitari del Novecento, basati sulla legittimità costituzionale degli stessi e sull’esigenza di obbedire alle leggi, il giuspositivismo è entrato in crisi nel secondo dopoguerra, in quanto si è avvertita la necessità di stabilire un limite alla legge, attraverso la tutela dei diritti umani fondamentali.

Nonostante questi tentativi, dagli anni Cinquanta il diritto continentale e il common law sono rimasti positivisti, in assenza di definizione di un’istanza superiore al diritto positivo capace di giudicarlo e di dichiararlo inefficace.

Diritto negativo e diritto positivo nella filosofia e nella storia

Secondo Aristotele, il diritto (dikaion,“giusto” o “diritto”) o l’oggetto della giustizia non va confuso con la morale. Il suo compito principale è quello di operare una sana distribuzione dei beni e delle cariche pubbliche tra i membri della collettività. È la virtù del “giusto mezzo”, la distribuzione in quantità moderata tra due sistemi opposti, o lo scambio di equivalenti (ventitré secoli dopo Marx avrebbe fatto lo stesso errore, tralasciando di considerare che è proprio la disparità di valore attribuito agli oggetti a determinarne lo scambio). Aristotele traeva questa concezione del diritto dall’osservazione del linguaggio e della natura esterna all’uomo, che è un riflesso dell’esperienza. La concezione aristotelica del diritto si adattava molto bene al diritto romano applicato dai giureconsulti.

Diversamente da Aristotele, per Platone la giustizia non deve limitarsi a distribuire a ciascuno ciò che gli spetta, ma ha il compito di perseguire il Bene. Secondo Platone, gli universali esistono come entità reali o archetipi perfetti ed eterni in un’altra dimensione della realtà; gli oggetti concreti che l’uomo percepisce evocano quelle astrazioni nella mente umana e ne sono i riflessi imperfetti. Individuando quindi le fonti del diritto nell’ideale e non nel mondo reale, Platone concepisce un ordinamento giuridico pesantemente normativo dal carattere utopico e strettamente legato alla morale, un diritto che in nome dell’armonia delle parti sacrifica l’individuo, legittimando poteri assoluti e dittatoriali come rimedio ai mali della società.

Cicerone fu influenzato da Platone e Aristotele. Tuttavia, se per Aristotele il lavoro del giurista consiste nel ricercare la giusta soluzione ai problemi giuridici, per Cicerone il giurista deve soltanto obbedire ai comandamenti della ragione o alle leggi che si pretendono dedotte dalla ragione, perciò il diritto finisce per identificarsi con le leggi. Qui cambia anche il concetto di natura: non è più una natura esterna all’uomo, bensì una “natura umana” intesa come una retta ragione che ci esorta ad adempiere ai nostri doveri, una ragione insita nell’animo umano, ma non nella stessa misura in tutti gli uomini.

Con l’Umanesimo si verificò un apparente ritorno al concetto di diritto naturale e al diritto romano, in quanto quest’ultimo fu recepito attraverso gli scritti di Cicerone.

Sant’Agostino influenzò molto la concezione del diritto nel Medioevo. Secondo Agostino, se noi conosciamo il vero, il bene, la giustizia solo grazie a Dio e non grazie all’esperienza sensibile, e se la verità e la giustizia sono Dio stesso, allora dobbiamo rinunciare al diritto naturale di Aristotele e dei giureconsulti romani.

La scuola francescana e i nominalisti appoggiarono la concezione agostiniana. Secondo Guglielmo di Ockham, gli universali esistono solo nella mente umana ma non nelle cose, sono parole dotate di un significato in quanto designano un’idea nel pensiero di una pluralità di individui di natura simile. Pertanto Guglielmo di Ockham nega l’esistenza delle categorie universali su cui si fonda il pensiero aristotelico, sostenendo che soltanto l’individuo è dotato di esistenza reale e può costituire l’oggetto autentico della nostra conoscenza. La prospettiva nominalistica nega quindi ogni esistenza reale alle entità astratte, ovvero concetti e idee, riducendole a meri segni linguistici. Pertanto la giustizia non deve salvaguardare l’ordine naturale dando a ciascuno il suo, ma deve assicurare al singolo il godimento dei propri diritti individuali. Da questa concezione del diritto derivano i diritti soggettivi e la nozione di diritto viene fatta coincidere con quella di potere, per cui ogni diritto sarà specificato in base al contenuto del potere che legittimamente l’individuo potrà esercitare, purché sancito da una legge positiva, fonte del diritto stesso. Guglielmo di Ockham pose le basi della nascita del positivismo giuridico.

Non così pensava San Tommaso d’Aquino, il quale predicò sia il ritorno alla dottrina del diritto naturale del “pagano” Aristotele sia il ricorso alle fonti “profane” per l’elaborazione del diritto. Secondo lui e gli altri realisti moderati, gli universali esistono nella realtà, ma soltanto negli oggetti concreti sotto forma di essenze metafisiche, e i concetti si riferiscono a queste essenze. Pertanto San Tommaso non riteneva le fonti rivelate adatte alla creazione del diritto, in quanto la loro funzione è soltanto istruire gli uomini nelle cose attinenti alla salvezza e non in quelle relative ai beni e alle questioni temporali.

A partire dal Basso Medioevo, le esigenze commerciali determinarono lo sviluppo dello ius mercatorum da parte della classe mercantile, senza mediazione della politica. L’obiettivo era facilitare gli scambi commerciali, accordando preferenza al venditore-creditore piuttosto che al compratore nei contratti di compravendita e la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci per le obbligazioni sociali. Con l’aumento della responsabilità dei soci, l’interesse protetto era quello della classe di mercanti e la sicurezza dei traffici, con lo scopo di accumulare maggiore ricchezza.

Il positivismo giuridico

Con la nascita e l’ampliamento delle funzioni dello stato moderno si assistette al proliferare di una legislazione positiva. Era interesse dello stato favorire il commercio e l’industria per poter ricavare le risorse finanziarie necessarie al mantenimento dell’apparato burocratico. Finché le esigenze dello stato e dei ceti produttivi si limitavano a proteggere i sudditi, a difendere i confini, e a tutelare la proprietà privata e i traffici commerciali, la legislazione è rimasta poco invasiva. Con l’avvento della democrazia e del suffragio universale, gli stati hanno adottato politiche di redistribuzione della ricchezza per ottenere consenso elettorale. È nato così il welfare state, anche nei paesi di common law, vera erede del diritto romano, e l’affermazione dei diritti soggettivi (pretese sul comportamento altrui) ha finito per degenerare in diritti particolari a vantaggio di precise categorie, concessi da uno stato “padre” che sa sempre cosa è meglio per ogni categoria sociale.

Il decisore finale ha il diritto e il potere di stabilire le regole ed esserne l’ultimo arbitro in base a un principio di legittimità che è puramente psicologico e irrazionale (la “servitù volontaria” di Étienne de la Boétie), in quanto deriva dalla convinzione dei “sudditi” che il “sovrano” deve fare le regole alle quali loro devono obbedire. L’istinto giuridico-normativo, in base al quale le norme sono utili per la sopravvivenza, si differenzia dall’istinto di conformità (obbedienza di gregge), ma entrambi si prestano a una degenerazione del rapporto tra legislatore e sudditi.

Prasseologia e principio di non aggressione

La legge di natura in senso prasseologico deve essere conforme alla definizione di essere umano come soggetto che agisce, che è proprietario di se stesso e che è posto in un sistema di interazioni sociali determinate dal linguaggio. La legge deve quindi essere in accordo con la natura umana e la proprietà di sé in un sistema sociale.

Il principio di non aggressione (non è consentito iniziare la violenza contro l’integrità fisica e la proprietà di un altro essere umano pacifico) è conforme alla natura umana e alla prasseologia, e insieme al diritto di proprietà e allo stato di diritto (principio di uguaglianza davanti alla legge) rappresenta il limite alla libertà in un sistema di ordine spontaneo basato sulla conoscenza distribuita e non centralizzata. Si tratta di quel sapere che si sviluppa spontaneamente e gradualmente, grazie allo spirito di ricerca o alla creatività dell’uomo: è la conoscenza scientifica in senso lato (compresa quella giuridica) o la conoscenza imprenditoriale, che da sempre hanno rappresentato i principali motori del progresso dell’umanità.

8 – LA LIBERTA’ NELL’ECONOMIA

“In una battaglia tra la forza e un’idea,
quest’ultima prevale sempre.”

Ludwig von Mises

Nelle mie letture, nelle conferenze e nei dibattiti ai quali ho assistito, ho imparato che non è possibile vivere la libertà senza conoscere i meccanismi naturali che muovono l’individuo verso l’autorealizzazione e, di conseguenza, la società verso il progresso. Per esprimere le nostre capacità, per guadagnarci uno spazio in mezzo agli altri e per farci strada nel mondo, non possiamo prescindere dalla conoscenza di quella che definirei la scienza sociale per eccellenza, ovvero l’economia.

Da brava sognatrice, ho sempre prediletto il sapere umanistico rispetto a quello tecnico o scientifico, per quanto la scienza abbia suscitato in me sempre una grande curiosità. Alla stessa maniera, sono stata una testimone di tutti i falsi miti che ci hanno insegnato sull’economia, in primis quello che sia una scienza strettamente legata alla matematica.

A un certo punto della mia vita mi sono dovuta ricredere e ho iniziato a interessarmi anche di economia. La curiosità e l’apertura verso ciò che è diverso e fuori dall’ordinario mi hanno fatto scoprire una scuola di pensiero sconosciuta, ma che ha contribuito enormemente al dibattito accademico. Questa scuola mi ha colpita da subito per la sua immediatezza logica, per la sua spiccata coerenza nel mettere al centro dell’agire economico e sociale la libertà e la creatività umana, e per la sua universale accessibilità. Sto parlando della Scuola Austriaca, perlopiù ignota nei circuiti mainstream e senz’altro bistrattata nelle università.

Dedicherò questo capitolo alla libertà economica come espressione dell’azione umana e della creatività individuale e come precondizione per il progresso umano. Presenterò quindi la Scuola Austriaca per stimolare la riflessione personale, con l’auspicio che possa essere illuminante per i miei lettori come lo è stata per me. A mio avviso, il suo fascino e la sua verità risiedono nella premessa che l’uomo ha la facoltà di agire nella libertà e nella responsabilità di costruire il proprio presente e di creare il proprio destino.

Come nasce la Scuola Austriaca di Economia

La Scuola Austriaca (detta anche Scuola di Vienna o Marginalista) è una scuola di pensiero economico che nacque a Vienna nella seconda metà dell’Ottocento, sulla scia degli insegnamenti della Scuola di Salamanca del Quattrocento e dei fisiocrati francesi del Settecento.

Volendo tornare ancora più indietro nel tempo per ricercare le origini del metodo austriaco, dobbiamo calarci nel Medioevo, il momento storico nel quale nacquero le università e la filosofia scolastica. Nel Duecento, lo scopo dell’universitas era discutere di qualsiasi argomento e il maestro non impartiva lectio, bensì sceglieva la quaestio disputata da sottoporre agli studenti per il dibattito in aula. Il capolavoro della Scolastica fu la Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, un’opera suddivisa in parti contenenti questioni analizzate in articoli dedicati a un problema. L’approccio era assiomatico-deduttivo, infatti in ciascun articolo la struttura logica della questione era: esposizione dell’idea, argomenti a supporto dell’idea, esposizione dimostrata delle tesi opposte, risposta con ragioni a sostegno della tesi, replica agli argomenti favorevoli o contrari.

Nel Quattrocento i seguaci tardo-scolastici di San Tommaso d’Aquino che insegnavano all’Università di Salamanca in Spagna cercavano una spiegazione all’azione umana e all’organizzazione sociale. Scoprirono così l’esistenza di leggi economiche e di forze di causa-effetto che operavano come le altre leggi naturali, come le leggi della domanda e dell’offerta, le cause dell’inflazione, i tassi di cambio, la natura soggettiva del valore. Gli Scolastici di Salamanca erano a favore del libero mercato, della proprietà privata, della libertà commerciale e contrattuale, e richiamavano i governi a un certo rigore etico.

Tra il Seicento e l’Ottocento, tra i principali precursori della Scuola Austriaca vi furono Frédéric Bastiat, Richard Cantillon, Jean-Baptiste Say e Anne Robert Jacques Turgot.

L’approccio della Scuola Austriaca è controverso, in quanto non è classificabile né come conservatore né come progressista, bensì è di tipo razionalista (kantiano e aristotelico). Si distingue sia dall’approccio platonico positivista dell’economia classica e neoclassica (David Hume, Adam Smith, David Ricardo e altri) sia dallo storicismo della scuola storica tedesca e degli istituzionalisti americani, pur basandosi sull’interpretazione dei singoli eventi storici. I suoi presupposti sono l’individualismo metodologico e la convinzione che l’unica teoria economica valida deriva logicamente dai principi basilari dell’azione umana (prasseologia). La Scuola Austriaca auspica un intervento minimo (o assente) dello stato sull’economia e la protezione della proprietà privata come diritto fondamentale. A livello politico, la scuola ha ispirato i gruppi e i movimenti libertari, liberisti e oggettivisti.

Gli economisti austriaci furono i primi a criticare apertamente e duramente le teorie marxiste e la dottrina hegeliana. Sebbene le tesi della Scuola Austriaca siano opposte a quelle classiche e neoclassiche, nonché a molte delle idee di John Maynard Keynes, essa ha avuto una grande influenza anche sul pensiero economico neoclassico, per aver posto l’accento sulla creatività umana come base della produttività economica, sull’elemento tempo e sulla teoria del comportamento umano. Gli austriaci si oppongono anche ai monetaristi della Scuola di Chicago, dei quali criticano: l’assenza di una teoria del capitale che possa collegare tra loro la microeconomia e la macroeconomia; la risposta alla crisi attraverso lo stimolo del consumo anziché del risparmio; la considerazione che il denaro è neutrale e la sua manipolazione non ha conseguenze sulla realtà.

Mentre gli economisti classici incentravano la loro analisi sul concetto di valore, derivato dalla quantità di lavoro necessaria a produrre i beni (valore lavoro), nel 1871 il libro di Carl Menger Principles of Economics spostò l’attenzione sui concetti di utilità e costo marginale, dando il più importante contributo alla rivoluzione marginalista e all’approccio soggettivista all’economia. Inoltre, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek diedero enfasi al sistema dei prezzi derivante dal libero scambio in presenza di proprietà privata, sul quale si basa la possibilità di calcolo economico.

Dopo l’avvento al potere di Adolf Hitler in Germania, molti economisti austriaci fuggirono dall’Austria e si stabilirono negli Stati Uniti. Nel corso del tempo si crearono due filoni: quello hayekiano, ispirato al premio Nobel per l’economia Friedrich von Hayek, che manifesta diffidenza nei confronti dei concetti neoclassici, ma fa ampio uso dei suoi metodi e modelli matematici; quello misesiano e rothbardiano, ispirato a Ludwig von Mises e Murray Rothbard, che rifiuta le teorie neoclassiche e sostiene l’inapplicabilità dei metodi statistici e matematici all’economia. Oltre a quelli citati, altri esponenti storici famosi della Scuola Austriaca furono Eugen von Böhm-Bawerk, Ludwig Lachmann e Israel Kirzner.

L’economia alla portata di tutti

Nel 2012 Francesco Carbone raccoglie per il pubblico italiano le lezioni universitarie del professor Jesús Huerta de Soto nel libro A scuola di economia. L’economista spagnolo definisce l’economia come la filosofia della vita e dell’azione umana, che tratta della persone, delle loro interazioni e dei problemi fondamentali della società. Di conseguenza, le istituzioni sociali non sono altro che schemi ordinati di comportamento, che incorporano informazioni accumulate nel tempo, nonché il prodotto di contributi di miliardi di individui nel corso della storia.

Nel 2013 l’Istituto Ludwig von Mises Brasile pubblica Dieci lezioni fondamentali di Economia Austriaca di Ubiratan Jorge Iorio, a ulteriore dimostrazione della natura prettamente sociale della scienza economica e di quanto essa sia strettamente legata alle nostre azioni quotidiane e alla soggettività delle nostre libere scelte.

Huerta de Soto e Jorge Iorio sono tra i pochi economisti ad aver descritto la loro materia di studio in maniera così semplice e immediata da avvicinarla alla comprensione dei non esperti. In questo capitolo riprenderò alcuni concetti salienti di A scuola di economia (ed. Usemlab 2012) e delle Dieci lezioni fondamentali (ed. Istituto Liberale 2020, traduzione e introduzione di Edson N. F. Amaral) per portare le teorie austriache alla conoscenza dei miei lettori.

Come funziona l’azione umana

Partiamo dal presupposto che tutte le azioni che compiamo quotidianamente le decidiamo in base alle nostre esperienze, ai nostri desideri e alle nostre preferenze personali, con l’obiettivo di ottenere una situazione migliore rispetto a quella di partenza. Le operazioni economiche non fanno eccezione: come tutti gli altri ambiti della vita, anche l’economia richiede iniziativa da parte nostra, non l’attesa di qualche intervento dall’alto che ci risolva i problemi.

La Scuola Austriaca definisce appunto l’azione umana come un atto di volontà, esercitato con l’obiettivo di aumentare la soddisfazione di chi lo esercita, nell’ottica che i fini supereranno sempre i mezzi. Tutte le azioni sono quindi realizzate attraverso un piano d’azione, il quale presuppone l’aspettativa razionale che al raggiungimento di un fine aumenti la soddisfazione o l’utilità soggettiva.

Quando agiamo, la nostra conoscenza dei fattori da prendere in considerazione è sempre incompleta ed è ripartita in modo disomogeneo tra gli agenti economici. Anche se tutti gli agenti di mercato disponessero delle stesse informazioni, ognuno ne darebbe un’interpretazione soggettiva diversa, in quanto l’individuo è razionale e ha gusti, preferenze e valori propri. Queste informazioni a disposizione degli agenti economici costituiscono la conoscenza imprenditoriale, dove per “imprenditoriale” non si intendono gli imprenditori in senso proprio, bensì la creatività umana e la possibilità per tutti di “intraprendere”. Questa conoscenza è soggettiva, pratica, non scientifica, privativa o unica, esclusiva, non ripetibile, non articolabile, non formalizzabile, tacita, dispersa, distribuita, creativa e trasmissibile (per riprendere la definizione di de Soto).

La scienza economica si limita pertanto a studiare i processi di scoperta, creazione e trasmissione della conoscenza pratica e dei meccanismi di trasmissione e coordinamento che danno luogo alla società e al mercato.

A differenza dell’etica, l’economia è avulsa da giudizi di valore sui fini.

Tuttavia, ciò non significa che l’economia non sia conciliabile con l’etica. Anzi, gli austriaci gettarono fin da subito le basi dell’etica in maniera oggettiva, servendosi dello studio dell’economia come bussola.

Per i libertari giusnaturalisti esiste un diritto naturale oggettivo e conforme alla natura umana; di questo ho già parlato nel precedente capitolo. Murray Rothbard costruì un’etica della libertà a partire dall’assioma della libertà del corpo e della proprietà privata, concludendo logicamente che l’esproprio coattivo, insieme a tutto ciò che impedisce lo scambio volontario, è male. In seguito, il suo allievo Hans-Hermann Hoppe utilizzò il criterio dell’argomentazione per riprendere il concetto di proprietà del proprio corpo. Israel Kirzner costruì invece un’etica basata sulla creatività imprenditoriale: se l’uomo scopre e crea continuamente nuovi fini e nuovi mezzi, esso ha diritto di appropriarsi della sua creazione. Questa, attraverso il mercato, crea spontaneamente beneficio anche per gli altri individui.

A proposito di diritti di proprietà, quella che nel diritto romano era l’occupatio res nullius, ovvero l’appropriazione delle risorse di nessuno, nel mondo anglosassone del Settecento coincideva con l’homesteading. La Scuola Austriaca si affida pertanto a un bagaglio storico di principi intuitivi e coerenti con la creatività umana e il suo approccio è di tipo scientifico (studio dell’economia libera da giudizi di valore), storico-evolutivo ed etico.

Le scelte degli individui che collaborano tra di loro nel mercato cambiano nel tempo, il quale è un flusso permanente e continuo di nuove esperienze. De Soto sottolinea una distinzione tra tempo soggettivo e tempo oggettivo, che non viene presa in considerazione dall’economia classica. L’azione umana si muove in un tempo soggettivo misurato per tappe, che è imprevedibile ed è il tempo dell’economia; esso si distingue dal tempo oggettivo, che è prevedibile e caratterizzato da dati e costanti.

De Soto fa inoltre una distinzione tra incertezza e rischio. Siccome ogni evento storico è unico e irripetibile, i fattori di incertezza non sono esterni, ma dipendono dalle modalità di azione. Il rischio è invece caratterizzato da situazioni del mondo naturale in cui non si conosce il risultato di un evento, ma è possibile stimare o conoscere la probabilità di un risultato. Il tempo soggettivo, quello della creatività imprenditoriale, è caratterizzato dall’incertezza, non dal rischio, per cui non esistono scenari probabilistici o condizioni ottimali, ma le alternative vengono scoperte imprenditorialmente.

L’economia è quindi l’insieme di tutte le azioni realizzate sotto forma di transazioni economiche unite alle scelte compiute nel corso del tempo e realizzate in condizioni di incertezza. Proprio per questa incertezza o conoscenza incompleta che caratterizza l’azione umana, l’economia non può essere una scienza esatta, bensì è una scienza sociale, che come tale non può essere studiata utilizzando i modelli matematici delle scienze naturali.

Il metodo degli economisti austriaci è quello logico-aprioristico-deduttivo basato sul falsificazionismo: si formula una teoria in base ad argomenti logici e tale teoria è considerata corretta finché non sarà falsificata dai fatti. È un approccio opposto rispetto a quello delle altre scuole di pensiero economico, le quali utilizzano complessi modelli matematici per tentare di descrivere il comportamento umano nel mondo reale.

Per gli economisti austriaci, la teoria economica acquista senso soltanto se riesce a spiegare la pratica economica, non il contrario. Pertanto la Scuola Austriaca, con realismo, pragmatismo e buon senso, ci insegna che, poiché la società è composta da innumerevoli individui che agiscono singolarmente, contribuendo alla creazione di un ordine sociale spontaneo in continua evoluzione, la complessità dei problemi sociali supera la nostra capacità di comprenderli, controllarli e gestirli. Affermava Hayek: “Il curioso compito dell’economia è dimostrare agli uomini quanto poco essi sanno su ciò che credono di pianificare.”

L’esperienza storica, sulla quale si basano le osservazioni e gli studi della Scuola Austriaca, dimostra che gli individui, in quanto esseri unici, coscienti e liberi, sono i protagonisti dei processi economici e sociali, pertanto il principale ingrediente per il raggiungimento del progresso sociale è la libertà di scelta individuale. Maggiore è la nostra libertà di scelta, maggiore è la possibilità di essere più soddisfatti, di fare sì che anche gli altri lo siano e di far progredire l’economia nel suo insieme.

Poiché l’uomo è nato per essere libero e per vivere una libertà responsabile, i presupposti per stimolare il miglioramento del tenore di vita delle persone sono: la libertà di iniziativa imprenditoriale, l’economia di mercato e la proprietà privata.

L’imprenditorialità (azione dal basso) è opposta all’interventismo (azione dall’alto) ed è un prodotto esclusivo dell’economia di mercato.

La funzione imprenditoriale è il concetto chiave della scienza economica e coincide con l’azione umana. I suoi elementi sono: i fini, i mezzi, il valore, la scarsità, l’utilità, l’atto di volontà, il piano d’azione, il tempo, il costo.

L’economia affronta il rapporto tra fini e mezzi. I finisono soggettivi e possono essere illimitati, ma i mezziper raggiungerli no; per questo motivo è necessario compiere una scelta su quali fini raggiungere con i mezzi che abbiamo.

Quando compiamo una scelta, facciamo una valutazione assegnando un valore a ciascuna opzione e scegliendo quella con il valore più alto. Il valore è l’apprezzamento psichico soggettivo di un fine, non è misurabile, può cambiare nel tempo, e non coincide con il prezzo. Il prezzoè ciò che paghiamo per qualcosa che desideriamo avere, mentre il valore è la soddisfazione soggettiva che deriva da ciò che acquistiamo. Più è alto il valore soggettivo che attribuiamo a qualcosa, più è alto il prezzo che saremmo disposti a pagare.

Poiché ogni scelta è un’azione, l’economia non è altro che lo studio dell’azione umana, ovvero delle scelte compiute dagli individui, i quali sanno di avere a disposizione mezzi limitati per raggiungere tutti i loro fini; questa condizione è la scarsità. L’economia è quindi anche la scienza dei mezzi, che studia come utilizzare le risorse scarse per raggiungere fini illimitati, rispondendo a tre domande: cosa, come e quanto produrre. Le risposte più appropriate le offrono i mercati, all’interno dei quali le libere azioni o scelte degli individui si incontrano su base volontaria.

Iorio definisce l’utilità come la soddisfazione che deriva dal possesso e/o dall’uso di un bene o di un servizio. Secondo de Soto, l’utilità è riferita ai mezzi e mai ai fini, ed è la valorizzazione soggettiva dei mezzi da parte dell’agente: maggiore è il valore di un fine, maggiore è l’utilità dei mezzi.

Il valore di un bene o di un servizio non è determinato né dai costi di produzione, né dalle ore di lavoro, né dal suo valore morale, né dal suo valore estetico, né (soltanto) dalla sua scarsità o dalla sua utilità. Dal punto di vista del mercato, ciò che conta è l’utilità soggettiva che ciascun individuo assegna a quel bene o servizio e dipende dalla scelta tra quel bene o servizio e le sue alternative.

Il valore dipende quindi da una combinazione tra utilità e scarsità, ovvero dalla cosiddetta “utilità marginale”. Questo concetto fu scoperto da Carl Menger nel 1871: se io ho sete e ho davanti sette bicchieri d’acqua, il primo bicchiere avrà per me un valore maggiore del secondo, il secondo avrà un valore maggiore del terzo, e così via decrescendo, fino all’ultimo bicchiere, che per me può valere zero. Con il passare del tempo, il settimo bicchiere riacquisterà valore se avrò nuovamente sete. Il motivo per cui in quel momento il primo bicchiere valeva di più degli altri era la scarsità del bene acqua, la mia esigenza di bere e l’utilità dell’acqua. Di conseguenza, ogni bicchiere bevuto in più aveva un utilità minore (nel margine, di quella unità aggiuntiva) rispetto al precedente.

I prezzi invece sono il risultato dell’azione umana e delle scelte razionali compiute dagli individui sul mercato, nel tempo e in condizioni di incertezza. Il mercato è un processo nel quale, per tentativi ed errori, le conoscenze e le aspettative dei membri della società diventano a mano a mano più compatibili con il passare del tempo. In questo, i prezzi e la concorrenza sono essenziali: i primi sono segnali che permettono agli attori del mercato di coordinare i loro piani nel tempo; la seconda permette di scoprire informazioni rilevanti. Poiché l’economia reale è dinamica, è difficile parlare di un equilibrio perfetto nel quale i prezzi eguagliano le quantità richieste e offerte di un dato bene: i prezzi possono soltanto convergere verso un equilibrio, senza mai raggiungerlo.

Per esempio, qualora dall’alto (artificialmente) si stabilisse un prezzo massimo per un determinato prodotto, le conseguenze sul lungo periodo sarebbero disastrose. Innanzitutto aumenterebbe la domanda di quel prodotto, ma poiché i prezzi dei sostituti di quel prodotto rimarrebbero costanti, quel prodotto diventerebbe più economico degli altri, per cui la sua domanda aumenterà (eccesso di domanda) a scapito degli altri (eccesso di offerta). Per compensare lo squilibrio, il mercato farà diminuire i prezzi dei prodotti sostitutivi, mentre il prezzo del prodotto iniziale, sottoposto a un limite, non potrà aumentare come conseguenza dell’aumento della domanda. Inoltre, chi produce a costi più elevati (solitamente i piccoli produttori) subirà delle perdite, e sarà costretto o a fermare la produzione e licenziare alcuni lavoratori, oppure a produrre altri beni. Il risultato sarà una quantità inferiore di quel bene sul mercato, perdite per i produttori, offerta di prodotti alternativi, licenziamenti, e prezzi maggiori per chi vuole acquistare il bene iniziale. La stessa logica si applica anche al contrario e non soltanto ai prodotti ma anche ai servizi, ai tassi di interesse, agli stipendi, ai tassi di cambio, ai margini di profitto ecc.

Per un imprenditore, il costo è l’insieme dei valori soggettivi attribuiti ai fini ai quali rinuncia per perseguirne altri. In economia vale il principio dell’eterogenesi dei fini, ovvero la conseguenza non intenzionale di fini intenzionali. Così, al variare dei fini e del valore dei fini, variano anche i costi. Se il valore al quale si rinuncia è maggiore del valore che si raggiunge, si subisce una perdita. Al contrario, se il valore al quale si rinuncia è minore del valore raggiunto, si produce un utile. I costi dipendono dai prezzi e non il contrario: a partire dalle valorizzazioni soggettive degli agenti economici, l’imprenditore stima i prezzi di mercato futuri acquistando i fattori di produzione nel presente.

Il profitto non è un concetto negativo di per sé: non è nient’altro che la remunerazione di chi agisce sul mercato, creando e trasmettendo nuove informazioni, coordinando le azioni degli agenti economici attraverso la creatività imprenditoriale e scoprendo nuovi fini e nuovi mezzi per soddisfare nuovi bisogni.

Il processo imprenditoriale è competitivo: in assenza di interventismo oppure di situazioni di corporativismo o di capitalismo di relazione (il “capitalismo” come lo conosciamo oggi, dove l’economia va a braccetto con gli interessi della politica), la “mano invisibile” farà sì che rimarranno sul mercato soltanto gli imprenditori che sapranno produrre nel modo migliore e a costi inferiori i beni e i servizi che i consumatori richiedono.

Oggi è ampiamente diffusa l’opinione che siano valide le idee d’economista Thomas Malthus, il quale affermava che mentre la crescita della popolazione è geometrica, quella dei mezzi di sussistenza è aritmetica, per cui si genererebbe uno squilibrio tra le risorse disponibili e la crescita demografica, la quale sarebbe la causa di fame e povertà. Secondo la Scuola Austriaca, invece, la legge di Malthus può valere per i topi, ma non vale per gli esseri umani, in quanto l’uomo è creativo e le risorse che contano sono quelle immateriali. Inoltre, la divisione della conoscenza rende possibile la specializzazione del lavoro: David Ricardo riteneva che la cooperazione tra persone più e meno dotate è sempre conveniente. L’alternativa è tra avere tante risorse ma pochi individui a saperle sfruttare oppure espandere le risorse, essendo in molti e più ricchi quantitativamente e qualitativamente, grazie alla creatività imprenditoriale. Ne deriva che la società non è altro che una struttura dinamica spontanea e complessa, nella quale le interazioni umane avvengono sottoforma di scambi di vario genere che si articolano in schemi ordinati di comportamento, sotto l’impulso della creatività umana e con il fine di moltiplicare la vita. Questa creatività può fiorire soltanto in un ambiente libero che garantisca il rispetto della proprietà privata e il risparmio, infatti per poter produrre è innanzitutto necessario risparmiare e poi investire.

Parlando di imprenditorialità, non si potrebbe non parlare di capitale. Il capitale rappresenta una delle fasi intermedie che caratterizzano il processo produttivo: ad esempio, il pane è un bene di consumo e quindi di primo ordine, la farina è un bene di secondo ordine e il grano è un bene di terzo ordine. Per poter quindi produrre e guadagnare, l’imprenditore è disposto ad attendere più tempo. Più lungo è il tempo di attesa, maggiore è il grado di incertezza tra l’azione e l’obiettivo, e maggiore è il valore del risultato. L’azione umana ci insegna che preferiamo raggiungere i nostri obiettivi il prima possibile con il grado di incertezza minore e che siamo disposti a rinviare l’ottenimento di un risultato in cambio di obiettivi più importanti.

La “preferenza intertemporale” ci dice che i beni presenti sono preferibili ai beni futuri e che il rinvio di un obiettivo nel presente richiede una ricompensa maggiore in futuro. Pertanto il vero capitalista non è altro che colui che risparmia, cioè che consuma meno di quanto produce, liberando risorse nelle fasi più lontane della struttura produttiva, al fine di produrre beni capitali, ovvero i cosidetti fattori di produzione fabbricati. I mezzi di produzione indiretti (la farina nell’esempio del pane) permettono di aumentare la produttività degli agenti, sia senza strumenti sia con il solo uso di beni capitali.

È quindi chiaro che gli agenti economici danno più valore ai prodotti attuali che a quelli fabbricati in futuro con caratteristiche simili, purché non cambino le circostanze. Considerando la legge della preferenza intertemporale, poiché il tempo è un fattore scarso, gli agenti economici cercano la soddisfazione maggiore nel minore tempo possibile. Dato che la tendenza è consumare nel presente, al consumo futuro (risparmio) deve corrispondere una ricompensa. Questa ricompensa è l’interesse originario, ovvero la differenza tra il valore attribuito a uno stesso bene nel presente e nel futuro. Il valore dell’interesse originario tende a essere direttamente proporzionale alla preferenza temporale degli operatori economici: più il consumo presente ha valore, maggiore deve essere l’interesse per indurre al risparmio; più ha valore il consumo futuro, minore è l’interesse che motiva al risparmio. Se domani finisse il mondo, il tasso di interesse tenderebbe a infinito; se invece fossimo immortali, il tasso di interesse tenderebbe a zero.

Pertanto il capitale non è una quantità, bensì una struttura complessa che possiede una dimensione temporale: le fasi successive della produzione dei beni sono la struttura del capitale o la struttura di produzione.

Poiché la valutazione soggettiva di un bene varia nel corso del tempo da un individuo all’altro, le possibilità di scambio sono molteplici: chi ha una bassa preferenza intertemporale è disposto a rinunciare ai beni presenti in cambio di beni futuri, per cui scambia i suoi beni presenti con chi ha una preferenza intertemporale più alta. Secondo la Scuola Austriaca quindi il tasso di interesse è il prezzo di mercato dei beni presenti rispetto ai beni futuri. Sul mercato, chi si trova dalla parte dell’offerta è il venditore o il risparmiatore che ha un’alta preferenza temporale, mentre l’acquirente è il consumatore che ha una bassa preferenza temporale.

Il mercato dei beni presenti e futuri è formato da tutta la struttura produttiva. In questa struttura, i capitalisti risparmiano e offrono i beni presenti a chi possiede i fattori di produzione (lavoro e risorse naturali) e i beni capitali, in cambio del possesso di un valore atteso più alto di beni futuri. Eliminati gli effetti degli utili e delle perdite commerciali, la differenza di valore tende a coincidere con il tasso di interesse. Maggiore è il risparmio (minore è la preferenza temporale), minore è il tasso di interesse, e maggiore è la disponibilità dei beni presenti per aumentare la durata e la complessità delle fasi di produzione. Minore è il risparmio (maggiore è la preferenza temporale), maggiore è il tasso di interesse. Il tasso di interesse indica alle imprese quali nuove fasi produttive o investimenti intraprendere e quali evitare, al fine di mantenere coordinato il comportamento di risparmiatori, consumatori e investitori, evitando che le fasi produttive siano troppo brevi o troppo lunghe.

Capitale e beni capitali sono concetti diversi dal punto di vista economico. Il capitale è il valore, calcolato a prezzi di mercato, dei beni capitali; il tasso d’interesse sarebbe una sorta di fattore di sconto. Il concetto di capitale per la Scuola Austriaca è quindi astratto, poiché esso è definito come uno strumento di calcolo economico, ossia una stima soggettiva dei valori attesi dei beni capitali per il futuro. Il capitale, a sua volta, è il mezzo indispensabile all’aumento del livello di benessere degli individui ed è il risultato di investimenti che, a loro volta, sono il risultato di risparmi precedenti. Il benessere aumenta grazie allo sforzo del risparmio, dato che esso è poi convertito in investimento.

Il tasso di interesse è il prezzo più importante in un’economia di mercato, perché coordina il comportamento di tutti gli agenti economici. In una società ricca, è basso, le preferenze temporali sono basse e dominano il risparmio e il prestito. In una società povera il tasso di interesse è invece alto, le preferenze temporali sono alte e domina il consumo.

La concorrenza svolge un ruolo chiave nella soddisfazione dei bisogni dei consumatori, sia in termini di qualità che in termini di prezzo. Poiché vanno avanti le aziende che servono meglio i consumatori, la concorrenza rivela le loro preferenze, elimina le aziende inefficienti e premia il merito. Essendo un processo dinamico di competizione che si svolge nel tempo, non esiste la concorrenza perfetta. Essa non sarebbe altro che la fotografia (piuttosto casuale) di un punto nel tempo in cui molti venditori vendono un prodotto identico allo stesso prezzo.

In un’economia di mercato il consumatore è sovrano, perché è libero di scegliere il prodotto o il servizio migliore tra diverse alternative. Per questo stesso motivo, anche il monopolio di per sé non è negativo, se si sviluppa in condizioni di libero mercato. Infatti, in caso di monopolio, un’azienda stabilisce il prezzo del suo prodotto in quanto unico venditore, ma è il consumatore a decidere se acquistare o meno quel bene. Inoltre, il monopolio è come un’istantanea del mercato, che in quanto tale raffigura una situazione temporanea di successo imprenditoriale, che prima o poi sarà cambiata dall’arrivo della concorrenza. La situazione opposta rispetto al libero fluire della concorrenza è il protezionismo, a causa del quale l’economia nazionale diventa meno efficiente e i consumatori sono meno soddisfatti.

Afferma Jeffrey Tucker:

Come sarebbe se avessimo il seguente sistema economico?

Questo sistema inonderebbe il globo di merci gratuite ogni giorno, non chiedendo nulla in cambio e dando praticamente tutto a tutti. La maggior parte di ciò che ha generato consisterebbe in beni gratuiti, e tutti gli esseri umani viventi ne avrebbero accesso.

Qualsiasi individuo che accumulasse profitti privati lo farebbe solo perché ha servito gli altri esseri umani con eccellenza, e un tale sistema farebbe inevitabilmente sì che questa persona rivelasse le sue idee e i suoi trucchi: tutte le persone del pianeta conoscerebbero le ragioni del successo di qualcuno.

Questo sistema, in questo modo, servirebbe tutte le razze e le classi. Servirebbe l’uomo comune in modo abbondante e servile e rovescerebbe le élite quando diventano superbe e arroganti. Sarebbe vantaggioso e redditizio per tutti includere sempre più persone nel loro potenziale produttivo e dare a tutti quanti una parte dei risultati.

Un tale sistema ha un nome. Si chiama libero mercato. Anche se è diventato molto più evidente nell’era digitale di oggi, il fatto è che la proliferazione dei beni gratuiti è sempre stata una delle caratteristiche principali del capitalismo. Il problema è che la gente raramente ci pensa e ne parla.

Ma questo è il mio punto: è impossibile avere successo sul mercato e non rivelare la “ricetta segreta” del successo. Se avrai successo, tutti i concorrenti sapranno alla fine quale formula è stata adottata e la copieranno.

Ed è così che funzionerebbero le cose in un mercato puramente libero, in tutti i settori. Avere successo significa fornire cose – fornire beni e servizi ai tuoi clienti (questa è la chiave del guadagno) e, di conseguenza, rivelare a tutti i concorrenti il metodo che ti ha fatto avere successo (o che ha portato al tuo fallimento). L’atto stesso dell’intraprendere – che tende sempre ad essere un compito liberamente copiabile – già di per sé trasforma i tuoi metodi in un oggetto di studio.”

In un’economia di mercato, lo scambio rappresenta la relazione sociale per eccellenza, perché è interpersonale, volontario, di tipo contrattuale, e consente a ognuno di perseguire i propri fini con mezzi economici in un sistema di relazioni simmetriche. L’alternativa è un sistema coercitivo basato su vincoli egemonici e mezzi politici, il cui fine è influire sul processo decisionale anziché soddifsare le necessità degli altri.

Come avvengono gli scambi? In passato esisteva il baratto, ovvero lo scambio diretto di un bene con un altro, ma i costi di transazione erano molto alti. In seguito, la perspicacia imprenditoriale di alcuni ha fatto sì che si identificasse la maggiore commerciabilità di un bene rispetto agli altri, facendo emergere una domanda addizionale di quel bene come mezzo di scambio e non come mezzo di consumo diretto.

Nacque così il denaro. Il denaro è un bene economico scarso, al quale si applicano le stesse leggi economiche degli altri beni. Esso non è altro che il prodotto dell’ordine spontaneo, ovvero dell’insieme delle scoperte graduali in conseguenza dell’azione non pianificata di innumerevoli individui. Un primo esempio di mezzo di scambio era il sale, che aveva le caratteristiche di essere durevole, facile da trasportare ed era accettato in quasi tutti gli scambi. In seguito all’invenzione del processo di conio, le monete di scambio divennero l’oro e l’argento. Il successo dell’oro fu dovuto al fatto che era un bene scarso, omogeneo, divisibile, immutabile e non alterabile.

Le monete furono in seguito rilasciate dal banchiere in cambio del deposito di una certa quantità di metallo prezioso, che solo il depositante aveva il diritto di riacquisire. Più tardi questi documenti divennero carta-moneta; oggi la moneta è rappresentata da quei certificati (le banconote) e dalle monete di metallo. Successivamente i banchieri iniziarono a prestare parte del denaro ricevuto in deposito; tali prestiti generavano nuovi depositi e divennero l’odierna moneta scritturale. Il passo successivo fu la moneta elettronica, ovvero le carte magnetiche. In futuro si prospetta l’utilizzo della moneta digitale… oppure, come alternativa, della moneta virtuale (prima fra tutte Bitcoin).

Gli economisti austriaci sostengono da sempre che l’aumento della quantità di moneta in circolazione non altera i servizi di scambio forniti dal denaro, ma diminuisce il potere di acquisto dell’unità monetaria. Rimanendo invece costante l’emissione di moneta, all’aumentare della produzione o della popolazione si manterrebbe una maggiore “proporzione” di denaro per una data quantità di moneta, spendendo di meno, aumentando così il potere di acquisto del denaro.

La causa principale dell’inflazione non è (soltanto, o non sempre) la scarsità dei prodotti, bensì la crescita della quantità di moneta (e del credito) in circolazione non coperta da una riserva di metallo prezioso o non compensata da corrispondenti aumenti della produzione, della produttività e della popolazione. Per cui l’inflazione non è il continuo e generalizzato aumento dei prezzi (questa ne è solo la conseguenza), bensì è la progressiva diminuzione del potere di acquisto dell’unità monetaria e il corrispondente aumento dei prezzi. Se da un lato c’è più moneta per acquistare beni e servizi, dall’altro se l’offerta di mercato non aumenta alla stessa velocità delle emissioni di denaro, i prezzi continueranno a salire, perché quei beni e servizi saranno più scarsi rispetto alla quantità di denaro in circolazione. In passato l’emissione di moneta non era prerogativa dei governi, bensì dei banchieri privati in concorrenza tra loro. In seguito i governi introdussero la “moneta a corso legale”, ovvero la moneta ufficiale dei paesi.

Il credito e la moneta emessi dalle banche centrali vengono moltiplicati dalle banche commerciali, le quali ricevono i mezzi di pagamento sottoforma di depositi in conti correnti, carta moneta e monete metalliche. Nell’attuale sistema a riserva frazionaria, le banche non prestano il denaro depositato, ma creano un nuovo conto corrente con denaro elettronico e concedono in prestito quel valore. Ciò significa che le banche detengono soltanto una frazione di liquidità come riserva di denaro, ovvero lo moltiplicano. In tal modo possono emettere passivi a breve termine mantenendo soltanto una piccola frazione di attivi netti a breve termine, anche se gran parte degli attivi si trova sottoforma di investimenti a lungo termine. Per questo motivo molte banche non sono state in grado di ripagare i loro debiti e la creazione di una banca centrale è stata la logica conseguenza e l’unico rimedio a questa vulnerabilità del sistema.

Mentre fino alla Prima Guerra Mondiale vigeva lo standard aureo (gold standard), per cui i governi potevano emettere moneta solo a condizione che vi fosse un corrispettivo aumento delle riserve di oro che la coprisse, con la fine della guerra lo standard aureo fu abbandonato da tutti gli stati del mondo (gli Stati Uniti furono gli ultimi ad abbandonarlo nel 1971): questa fu la causa dell’aumento globale dell’inflazione.

Secondo la Teoria Austriaca dei Cicli Economici, la manipolazione artificiale della quantità di moneta e del credito in circolazione è responsabile dei cicli economici, ovvero non solo dell’inflazione, ma anche della disoccupazione.

La nuova moneta emessa entra in un momento e in un punto specifico del sistema economico e viene spesa per alcuni beni e servizi privati. Gradualmente si diffonde gradualmente in tutto il sistema; così alcuni prezzi cambiano prima, altri dopo. Fino a quanto si mantiene l’espansione del credito, i suoi effetti continueranno a irradiarsi sui prezzi, producendo una variazione nell’allocazione delle risorse e un disallineamento nel settore privato tra i piani di risparmio e i piani di investimento. In caso di espansione del credito bancario e in mancanza di aspettative sull’inflazione futura, i tassi di interesse scendono, per cui la spesa per gli investimenti aumenta rispetto alla spesa per i consumi correnti e rispetto al risparmio.

Modificando i prezzi relativi, la politica monetaria cambia anche i segnali emessi dai prezzi. In caso di espansione monetaria, tali segnali indicano la riduzione dei profitti delle imprese che producono per il consumo corrente, e l’aumento dei profitti derivanti dalla produzione per il consumo futuro. In questo maniera, i tassi di rendimento delle varie combinazioni di capitale cambiano: mentre i guadagni nelle fasi produttive più vicine al consumo diminuiscono, i guadagni nelle fasi produttive più lontane dal consumo aumentano. Le risorse non specifiche si spostano dalla produzione vicina al consumo alla produzione lontana dal consumo e vengono favoriti i beni che si adattano a strutture produttive più complesse. Al fine di completare gli investimenti fino alla fase dei beni di consumo finale, vanno sottratte maggiori risorse ai consumi, quindi la produzione di beni di ordini inferiori diminuirà fino al completamento della nuova struttura produttiva.

Questo processo causa il suo stesso capovolgimento: in conseguenza dell’espansione monetaria e creditizia, se aumentano i redditi dei proprietari dei fattori di produzione, aumenterà la domanda di beni di consumo, il che causerà un aumento dei prezzi di questi beni rispetto a quelli dei beni più lontani dal consumo. Così i guadagni diminuiranno nelle fasi più lontane del consumo finale, mentre aumenteranno nelle fasi più vicine del consumo finale; le risorse non specifiche diminuiranno; i beni capitali, che erano stati dimensionati per la precedente struttura produttiva, dovranno essere ridimensionati per servire una struttura basata su una minore intensità di capitale; si verificheranno perdite e disoccupazione, che saranno più forti nei settori che prima erano più espansi e che ora devono affrontare la sovrapproduzione.

Per concludere, secondo la Scuola Austriaca la recessione economica è la conseguenza delle perverse allocazioni di risorse generate dall’espansione monetaria. La crisi economica è stata quindi innanzitutto causata dall’attività delle banche centrali, che hanno abbassato i tassi di interesse al fine di mantenere una crescita economica artificiale, e dall’attività dei governi, che con spese fuori controllo hanno alimentato il debito pubblico. A loro volta, i governi hanno tentato di combattere questa crisi alimentando lo stesso circolo vizioso.

L’attualità delle teorie austriache

Da più di un secolo gli economisti austriaci sono stati in grado di anticipare eventi economici di vasta portata.

Intorno al 1920 Ludwig von Mises previde la fine dell’URSS, spiegando la ragione del fallimento dell’economia pianificata ovvero del socialismo, inteso come reale (nel caso specifico: sovietico e marxista), democratico (economia mista di tipo interventista), conservatore (reazionario) oppure scientista (ingegneria sociale). Infatti, poiché non è possibile incorporare in maniera centralizzata l’enorme volume di informazioni presenti e future del mercato, le quali costituiscono la conoscenza imprenditoriale, il calcolo economico non è possibile all’interno di un sistema coercitivo. Al contrario, esso è possibile soltanto all’interno di un ordine spontaneo basato sulla proprietà privata, dove i prezzi sono determinati dalla moltitudine delle libere decisioni e transazioni di venditori e compratori e dove le informazioni necessarie allo sviluppo della conoscenza imprenditoriale sono a disposizione degli agenti economici.

Gli austriaci elaborarono anche la migliore spiegazione alla crisi del 1929, previdero con largo anticipo la crisi del 2008 e l’espansione della bolla immobiliare, e anticiparono la crisi economica attuale. Le loro obiezioni alle analisi delle altre scuole di pensiero si rivelarono fondate anche per anticipare eventi nel corso del Novecento che gli economisti classici avrebbero reputato impossibili, come ad esempio la stagflazione negli anni Settanta.

La Scuola Austriaca di Economia è anche una scuola di pensiero molto attuale, che fornisce spiegazioni e risposte logiche e immediate a molti problemi economici. Al fine di evitare crisi e cicli economici sistematici, garantire la massima stabilità dei prezzi, mantenere un sistema basato sul rispetto dei diritti di proprietà, vedere la fine della speculazione finanziaria e il ritorno a un sistema democratico non basato sul finanziamento della spesa pubblica tramite l’inflazione, Huerta de Soto auspica tre riforme: riprivatizzare gradualmente il denaro reintroducendo lo standard aureo; eliminare la centralizzazione bancaria e sottomettere le banche al diritto commerciale e privato; far rispettare alle banche i principi del diritto, sostituendo la riserva frazionaria con un coefficiente di cassa al 100%.

Ho voluto esporre i principali concetti della teoria austriaca per fare chiarezza su alcune definizioni e punti attualmente ancora controversi e per stimolare ulteriori riflessioni. A mio avviso rappresenta un importante trampolino di lancio per la diffusione di una cultura della libertà e per la realizzazione di un ideale etico, consapevole e sano di progresso umano che non sia imposto dall’alto, bensì parta dal basso, in modo evolutivo e spontaneo, all’interno di una società aperta.

Questo sistema sarebbe basato unicamente sulla legge in senso materiale, ovvero sul giusnaturalismo (diritto naturale e consuetudinario) e sull’evoluzionismo, al contrario di un sistema basato sui decreti, nel quale domina il positivismo giuridico e dove tutto ciò che è emanato dall’alto è legittimato acriticamente dalla popolazione. Nel primo caso, la libertà di azione permetterebbe a ciascuno di perseguire i propri fini all’interno di un sistema collaborativo e pacifico, basato sull’ordine spontaneo, dove il governo sarebbe limitato dalla legge e non il contrario, dove l’aiuto reciproco non deliberato sarebbe offerto attraverso il mercato, e dove ci sarebbe uguaglianza e lealtà di fronte alla legge. Nel secondo caso, dominerebbero gli impulsi emozionali della società tribale chiusa, basata sull’ordine gerarchico, nel quale l’individuo non avrebbe libertà di azione, bensì sarebbe costretto a perseguire i fini e il “bene comune” di chi lo governa.

9 – LA LIBERTA’ NELLA STORIA

“Nel suo mondo, il sistema migliore
per ottenere qualcosa consisteva nel meritarlo,
non nell’adulare chi aveva il potere di concederlo. ”

Ken Follett, I pilastri della Terra

A questo punto potremmo chiederci: è mai davvero esistita la libertà nella storia? In quale periodo storico l’organizzazione sociale corrispondeva all’ideale di un mondo nel quale l’uomo era libero di determinare il proprio destino e di far fiorire tutto il proprio potenziale creativo per favorire il progresso spontaneo?

Potremmo ad esempio pensare al Rinascimento e alla rivoluzione culturale apportata dall’Umanesimo tra la fine del Trecento e la fine del Quattrocento, con il suo rinnovato interesse filologico e spirituale per il culto del mondo classico e una nuova consapevolezza della posizione privilegiata dell’uomo come individuo unico e irripetibile, posto al centro dell’universo e capace di dominare sulla natura.

Tuttavia, in questo capitolo non parlerò di Umanesimo. Anzi, quando parlo di “umanesimo” la prima cosa che mi viene in mente è l’uomo come centro delle vicende umane calate nella loro realtà storica, nella loro dimensione esistenziale di vita reale, concreta, o quantomeno possibile. Nella mia immaginazione, questo ideale si trova nel romanzo storico, ma il romanzo storico nacque nell’Ottocento.

Non parlerò nemmeno di Romanticismo, con la sua spinta a evadere dalla realtà e la sua tensione verso l’assoluto e gli ideali più alti dell’umanità, per quanto fosse un movimento letterario, artistico e culturale nel quale la libertà (quantomeno il sogno della libertà) la faceva sicuramente da padrona. Tuttavia il Romanticismo esaltò in molti modi il periodo storico che ho in mente, riprendendo la poesia epica, nella quale ricercava i prodromi dell’identità dei popoli e quindi delle moderne nazioni europee, esaltando le cattedrali gotiche come l’espressione più alta della spiritualità cristiana e i luoghi delle arti e dei mestieri come la culla del pensiero libero, e riscoprendo la legge naturale con la Scolastica di Tommaso d’Aquino promossa da Papa Leone XIII.

Sto parlando proprio del Medioevo, di quello che, per antonomasia, è considerato il periodo più buio, barbarico e superstizioso della storia dell’umanità. Al contrario, la storiografia contemporanea ha dimostrato a più riprese l’infondatezza di questa visione del Medioevo come un’oscura epoca di mezzo tra l’antichità classica e la riscoperta della civiltà greco-romana durante il Rinascimento, svelando tutta la sua luminosa varietà, creatività e ricchezza di idee e scoperte.

La libertà del Medioevo

Nel libro Il Medioevo delle Libertà di Guglielmo Piombini (ed. goWare – Leonardo Facco Editore) il Medioevo, ovvero il periodo storico che inizia con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) e culmina con la scoperta dell’America (1492), è descritto come un fiorente periodo dalle mille invenzioni (i bottoni, la stampa, il libro, gli occhiali, l’orologio, la bussola, il timone, le carte da gioco, i vetri alle finestre, l’alcool, il sapone, la polvere da sparo, il camino, le nuove tecniche di coltivazione e di conservazione del cibo, le note musicali, le moderne pratiche commerciali, le cattedrali, le università, gli ospedali, ecc.). Senza considerare che fu proprio il caotico ambiente medievale, incentrato sul commercio e sulla proprietà privata e privo di un sistema di potere centralizzato, a favorire il processo spontaneo di scoperta e indirettamente il futuro decollo dell’economia.

In seguito al crollo dell’Impero Romano, l’autorità politica si frantumò; l’assenza di territorialità del potere diede origine all’”anarchia feudale”, una situazione politica e sociale caratterizzata dalla privatizzazione del patrimonio statale da parte degli invasori barbarici e dalla conseguente coesistenza di giurisdizioni concorrenti, dove la volontà individuale non si realizzava attraverso la guerra civile, bensì era limitata dal diritto consuetudinario.

Inizialmente l’unità politica primaria era la famiglia stanziata su un fondo gestito da un piccolo agricoltore, il quale era un proprietario indipendente che esercitava una naturale autorità nei confronti della famiglia e dei suoi servitori. L’ordine sociale si sviluppò quindi dal basso: i migliori amministratori dei fondi divennero via via più ricchi e potenti e assunsero i signori più piccoli, dando origine a una piramide spontanea e volontaria di rapporti gerarchici denominata vassallaggio. Successivamente più famiglie si unirono in clan, i quali divennero piccoli feudi, i quali diedero origine alle baronie; da queste nacquero le contee e in seguito, come ultimo stadio, il regno.

A differenza delle società classiche, nelle quali gli uomini liberi esercitavano i diritti di cittadinanza attraverso il voto e la partecipazione agli affari pubblici, nel Medioevo la vita privata prevaleva su quella pubblica e i “mezzi economici” delle libere associazioni di mestiere prevalevano sui “mezzi politici” di un’autorità stabilita dall’alto. Successivamente le confederazioni tra famiglie determinarono gradualmente la nascita delle città comunali, che di fatto erano comunità volontarie a carattere privatistico, nelle quali era possibile acquisire uno status giuridico diverso soltanto acquistando la terra. Questo sistema favoriva la meritocrazia e lo sviluppo dell’autorità naturale, che era attribuita alle famiglie in base al talento, al coraggio e al valore. Nel corso del tempo le stesse famiglie, attraverso la successione ereditaria, andarono a costituire per gradi le nazioni dell’Europa occidentale.

La storia europea ha quindi dimostrato come, in assenza di un potere centrale, i rapporti volontari e contrattuali tra privati non generano un “contratto sociale”, bensì un ordine naturale privo del monopolio legittimo della forza. In questo caso non si sviluppa un potere accentratore e sganciato dalle tradizioni, dall’evoluzione e dalle esigenze della società e, in ultima istanza, dell’individuo, bensì il potere resta limitato e decentralizzato. Pertanto quando si parla di “anarchia medievale”, quindi di assenza di potere pubblico, non si intende l’assenza di ordine giuridico, bensì l’esistenza di un ordine naturale conforme alla natura umana e volto a favorire lo sviluppo e il progresso sociale.

Nel Medioevo non esisteva una tassazione regolare (considerata una violazione dei diritti) e in caso di emergenza le guerre erano finanziate volontariamente e limitatamente nel tempo dai vassalli su richiesta del principe oppure, nei casi di ulteriore necessità, dalle classi mercantili e dalle corporazioni, e in ultima istanza dai cittadini del regno. La schiavitù era quasi del tutto scomparsa (i servi della gleba avevano tutti i diritti degli uomini liberi), il potere assoluto era ritenuto criminale, la sicurezza e la giustizia erano demandate dai servi ai signori in cambio del lavoro ed erano quindi sottoposte alle leggi della libera concorrenza (a tutto vantaggio di chi ne usufruiva), e il diritto di insurrezione era un dovere riconosciuto dalla religione. In poche parole, nel Medioevo la legge (diritto naturale, volontarismo, consuetudine) dominava sul potere, in quanto il diritto scaturiva dal basso ed era espressione dell’organizzazione sociale spontanea.

La presenza di molteplici giurisdizioni garantiva la possibilità di essere giudicati in base al diritto feudale, al diritto comune (ius communis), al diritto mercantile (lo ius mercatorum o lex mercatoria era universale, si svolgeva nei tribunali privati tramite gli arbitrati volontari e valeva dentro e fuori dall’Europa), al diritto statutario, al diritto consuetudinario o al diritto canonico, a seconda della propria appartenenza. Il principe non era il legislatore, bensì il supremo giudice, e i famosi editti medievali erano semplici raccolte di consuetudini, usi e costumi del regno.

Riflettendo la varietà e il dinamismo della vita sociale ed economica del tempo, il pluralismo giuridico occidentale favorì lo sviluppo e la libertà, ma fu del tutto abbandonato a favore del monopolio legale dello stato alla fine del Settecento, con la diffusione delle idee illuministe e le rivoluzioni “borghesi”.

Nel corso della storia, la definitiva distruzione dell’eredità medievale a favore dello stato moderno fu causata dalla Francia di Filippo IV il Bello (con il quale l’ordine privatistico e la monarchia per diritto divino cedette il passo alla monarchia statale), dalla Riforma protestante (secondo Martin Lutero lo strumento di Dio era lo Stato, non il papato), dalla Rivoluzione francese (che eliminò del tutto l’ordine competitivo, pluralistico ed extrastatuale medievale a favore della divisione dei poteri, dello stato di diritto, della certezza del diritto e del costituzionalismo) e dalla Prima Guerra Mondiale (che distrusse ogni traccia dell’ultimo riflesso della Belle Epoque, con i suoi miti della ragione e del progresso, e dell’eredità medievale che era rimasta nella monarchia austro-ungarica erede del Sacro Romano Impero, per cedere il passo all’era democratica della politicizzazione totale).

Un Far West selvaggio o libero?

Per tornare all’Ottocento come periodo di libertà, vorrei riprendere il libro L’epopea libertaria del Far West, sempre di Guglielmo Piombini (ed. Leonardo Facco Editore – Monolateral 2020), un validissimo scritto che sfata un altro mito molto diffuso nell’opinione pubblica e nella moderna cultura occidentale, ovvero quello del Far West americano selvaggio e violento.

Secondo alcuni studiosi moderni (Davis, Hollon, McGrath, Prassel, Pritchard), il Far West non era il dominio della legge del più forte, bensì per molte persone comuni rappresentava una vita monotona scandita dalla fatica del lavoro. Inoltre, la violenza era meno diffusa di oggi: furti e rapine erano episodi isolati, le sparatorie erano frequenti ma venivano considerate scontri leali tra clan rivali, e gran parte degli arresti erano dovuti a cattiva condotta.

Nel Far West non vigeva l’anarchia, anzi le leggi esistevano ed erano le stesse che i rivoluzionari americani avevano rivendicato conto i monarchi assoluti inglesi: si trattava dei diritti ereditati dalla common law e dalle istituzioni medievali che vennero trapiantate nel Far West. Negli Stati Uniti dei primi decenni dell’Ottocento, i problemi si risolvevano attraverso l’associazione volontaria di persone e non attraverso l’interventismo statale. La legge del Far West non era l’assenza di ordine, bensì era buon senso e applicazione delle tradizioni giuridiche anglosassoni, unite a soluzioni di giustizia temporanee che comprendevano: la libertà di portare armi, la possibilità per gli uomini comuni o per i cacciatori di taglie di collaborare con gli sceriffi, i comitati di vigilantes, e le agenzie investigative private. Si trattava di sistemi privatistici che si rivelarono estremamente severi ed efficaci nel tutelare le persone e la proprietà privata.

Nei primi decenni dell’Ottocento, in seguito alla guerra d’indipendenza, negli Stati Uniti la libertà si affermò come non era mai avvenuto nella storia. Gli ideali libertari, che propugnavano il libero scambio e riconoscevano come inviolabili i diritti di libertà e di proprietà, divennero maggioritari sia tra gli intellettuali e tra i politici che tra la popolazione. Molti europei, anche italiani, si trasferirono in quella terra promessa per trovare fortuna e per lanciarsi nella libertà commerciale e nella creatività imprenditoriale, spinti non soltanto dalle terre libere, ma anche dall’individualismo e dallo spirito di indipendenza, dalla diffusione delle politiche libertarie, dai principi repubblicani dei coloni, dalle idee di Thomas Jefferson e dei padri fondatori. In particolare, erano spinti dai principi della Dichiarazione di Indipendenza e della Costituzione, i quali tutelavano l’individuo dagli abusi del governo e ponevano l’accento sul volontarismo e sull’autogoverno.

Il Far West americano storicamente è stato l’esempio più straordinario di società moderna totalmente decentralizzata, costruita dalla fede dei pionieri nella libera competizione, dal loro ottimismo e dalla loro fiducia illimitata nel futuro. In pratica, era la realizzazione del “sogno americano”, ovvero dell’idea che la prosperità economica si possa raggiungere grazie al duro lavoro, al coraggio e alla determinazione.

Per i primi coloni, la democrazia era una società basata sull’autogoverno dell’uomo comune senza distinzioni di classe, senza monopoli né privilegi, ma basato sulla semplicità e sul governo del popolo, e aveva come ambizione la mobilità sociale, la libertà e il benessere delle masse. Lo stesso Thomas Jefferson nel periodo rivoluzionario introdusse una serie di misure politiche a favore dei coloni, tra le quali l’abrogazione delle leggi “feudali” di inalienabilità e primogenitura, l’abolizione della Chiesa di Stato e la richiesta di abolizione della schiavitù.

I pionieri erano uomini idealisti volti alla conquista della natura, al dominio delle foreste, delle montagne, dei deserti, dei luoghi desolati e sterminati, per il gusto di svelare l’ignoto e per il desiderio di superare l’orizzonte spingersi oltre i limiti. Il Far West era il luogo nel quale si sognava e si realizzava la migliore società e nel quale gli oppressi del mondo potevano coltivare una visione di speranza e di fiducia nell’uomo, potendosi elevare a seconda delle proprie capacità.

10 – LA LIBERTA’ NELLA FEDE

“I paesi dell’anima non si possono vedere con occhi a prestito.
Se mai, li immagino o li sogno.
Nessuno ha occhi lucidi e chiari come la fantasia o il sogno.”

Primo Mazzolari, Tempo di credere

Forse oggi come non mai c’è veramente bisogno di riscoprire se stessi immaginando i paesi dell’anima con gli occhi della fantasia e del sogno.

La citazione di don Primo Mazzolari mi riporta alla mente il viaggio allegorico dell’anima verso la cima della montagna descritto dalla scrittrice cristiana Hannah Hurnard nel 1955 in Hinds’ Feet on High Places (Piedi di cerva sulle alte vette – Viaggio a Dio attraverso il Cantico, ed. Gribaudi 2000, traduzione di Guglielmino D.).

Quello che sto per presentare è un libro di grande profondità e sostanza, che rappresenta il cammino spirituale dell’anima umana la quale, nella piena libertà della sua essenza, affronta le prove della vita fino a raggiungere l’ascesi mistica e la comunione totale con Dio, vetta della sua fede e ragione della sua esistenza. È uno scritto che a mio avviso racchiude, tra gli altri, un grande insegnamento: l’accettazione quotidiana delle circostanze e delle difficoltà della vita reale, attraverso una continua offerta della nostra volontà, e una ripetuta lotta contro il male, una lotta che si compie accettandolo e vincendolo.

È la storia di Timorosa, che una notte riesce a liberarsi dai parenti Paurosi per seguire il Gran Pastore dalla Vallata dell’Umiliazione fino alle Alte Vette del Regno dell’Amore che cancella le paure. È un viaggio pieno di insidie e difficoltà, che Timorosa affronta con le compagne Tristezza e Sofferenza.

Il primo ostacolo è l’incontro con Orgoglio, un lontano parente inviato dai Paurosi per sedurre Timorosa e convincerla a tornare indietro. Per quanto lei sia consapevole che le sue parole la allontanino dal traguardo, esse suonano fin troppo credibili e plausibili: essendo lei brutta e deforme, come può essere accettata nel regno della bellezza perfetta? Tuttavia, grazie al richiamo del Pastore, Timorosa vince Orgoglio e si aggrappa saldamente a Tristezza e Sofferenza: una presa ancora più dolorante e insopportabile e un’angoscia ancora più straziante.

Le due compagne la conducono in discesa verso il deserto: un rinvio, un’apparente contraddizione da accettare affinché il meglio diventi realizzabile. All’alba, dove brilla un primo quarto di luna e luccica la stella del mattino, Timorosa costruisce un altare, deponendo sopra la sua volontà vacillabile e ribelle, per trovare la forza di giungere ai piedi delle piramidi del deserto. Lì incontra una processione di esuli, che diventa un intero popolo che si espande senza fine: è il popolo che il Pastore porterà in Egitto attraverso il deserto, quel luogo dove nasce spontaneamente un fiore dorato dal nome Accettazione-con-Gioia.

Il viaggio prosegue lungo le desolate sponde del mare della Solitudine, lì dove, quando il sole splende, il grigio diventa luce che si riflette sul verde delle rumorose onde e dove la bianca spuma contrasta con il blu dell’orizzonte, misterioso e scuro come il cielo di notte. Timorosa ormai si sente vicina alle Alte Vette e il seme dell’impazienza si pianta nel suo cuore.

Così, accorgendosi che Timorosa è ormai lontana dalla dimensione della paura, Paurosi inviano Rancore, Amarezza e Autocommiserazione a dare man forte a Orgoglio. Nonostante i loro attacchi, il Pastore riesce a infondere nel cuore di Timorosa il fiore dell’Accettazione-con-Gioia.

Il viaggio continua lungo le rive del mare e improvvisamente il sentiero devia verso il deserto, in direzione delle montagne. Timorosa lascia la mano di Tristezza e Sofferenza per precipitarsi sulle Vette, ma all’improvviso il sentiero devia nella direzione opposta e dietro una duna di sabbia riappare Amarezza. Le guide prendono Timorosa per mano e il vento le acceca, Timorosa costruisce un altare dove depone la sua volontà e si consegna a quella del Pastore.

Giungono quindi in un luogo dove il mare forma una laguna con il deserto. Attraversata la laguna, si trovano in un bosco pullulante di vita, immerso in un’atmosfera primaverile; il fiore dell’Accettazione-con-Gioia cresce nel cuore di Timorosa e lei depone il suo cuore sull’altare.

Proseguendo il percorso, giungono alla sommità di una collina e si trovano su un vasto altopiano dove sono visibili le montagne, ma si accorgono subito che c’è uno strapiombo. Nonostante le compagne la spingano a proseguire, Timorosa si dispera e incontra il cugino Codardo. Sofferenza la punge e Timorosa invoca il Pastore, che le promette che attraverserà lo strapiombo.

All’accusa che le sue imprese sono folli e assurde, il Pastore risponde che ama l’assurdo perché ama trasformare la debolezza in forza, la paura in coraggio e tutto ciò che è stato guastato in perfezione. All’accettazione della volontà del Pastore, appare un arcobaleno che tramuta tutto in bellezza. Timorosa costruisce un altare e vi depone la sua volontà, il suo terrore e la sua riluttanza.

Con sorpresa, il Pastore annuncia a Timorosa che dovrà superare i pericolosi strapiombi di almeno uno dei Monti Ingiuria, Offesa, Odio e Persecuzione per compiere la Salita dell’Amore. Lo spirito di Grazia e Conforto che potrà bere la aiuterà nella scalata del Monte Ingiuria, che compirà insieme alle sue compagne, dove incontrerà, oltre ai suoi nemici sempre in agguato, un altro fiore chiamato Sopportazione-del-Sacrificio o Perdono.

La prossima tappa del viaggio sono le foreste del Pericolo e della Tribolazione. Dopo una sosta in un rifugio, nel quale Tristezza scopre di saper cantare, finito il temporale le tre avventuriere ripartono e si immergono in una fitta nebbia che rende invisibile la foresta. Appare il Pastore e Timorosa scopre di aver imparato a cantare grazie a Tristezza. La nebbia scompare e lascia il posto al sole; allora Timorosa si accorge di aver imparato ad amare Tristezza e Sofferenza.

Proseguono il viaggio e si accorgono che il percorso le conduce in basso, ma ormai non riescono più a tornare indietro. Con loro sorpresa, il sentiero le conduce verso una valle infossata come la Vallata dell’Umiliazione. Il Pastore chiede a Timorosa se tollererà di perdere tutto ciò che ha conquistato nel viaggio verso le Alte Vette, scendendo il sentiero del perdono fino alla Valle della Perdita. Timorosa accetta e nella Valle della Perdita si sente libera e in pace con se stessa.

Il sentiero le conduce infine dall’altra parte ai piedi delle montagne, ancora più alte e scoscese dello strapiombo dell’Ingiuria, ma attraverso dei seggiolini possono raggiungere la cima senza fatica. Giunte ai confini del Regno dell’Amore, si trovano in un paesaggio montuoso mozzafiato. Il pastore le conduce attraverso i campi verso la cascata. Ai piedi della scogliera ordina loro di guardare in alto le acque che precipitano dalle Alte Vette e lo slancio con cui si donano all’abisso, con una gioia che non finisce al frantumarsi dell’acqua sulla roccia.

Il Pastore preannuncia a Timorosa che riprendendo il viaggio verso le Alte Vette continuerà a incontrare nuvole e nebbia. Se sarà indotta a pensare che le Alte Vette sono un sogno, quelle vette sono la realtà, mentre la nebbia è l’illusione.

Proseguendo il cammino nella nebbia, si imbattono in una capanna; si riposano e quando ripartono incontrano il temporale. Continuando il percorso, arrivano a un altopiano e poi sull’orlo di un abisso, a una gola nascosta da nebbia e nuvole al margine della grande cascata. Saltano la gola e si ritrovano davanti a un altare di roccia.

Il Pastore stavolta non c’è, ma non ci sono nemmeno i nemici di Timorosa, perché la fossa sulle montagne è vicina alle Alte Vette. Timorosa avverte soltanto una grande calma e il desiderio di fare la volontà del Pastore. Prova a strapparsi la pianta dal cuore ma non ci riesce e nemmeno Sofferenza e Tristezza la possono aiutare. La figura indistinta di un prete le strappa la pianta e il naturale amore umano le viene fuori dal cuore senza radici rotte o andate perdute. Lo getta sul fuoco e di esso e delle compagne di viaggio non resta altro che cenere.

Cade addormentata e appena si risveglia trova intorno a sé un luogo paradisiaco. Scopre di non essere più deforme e di avere piedi di cerva. Finalmente vede il Pastore e prende il nome di Grazia Celeste, mentre Tristezza e Sofferenza prendono il nome di Gioia e Pace.

Giunte sulle Alte Vette, ai pendii del Regno dell’Amore, la prima cosa che capiscono è che avrebbero visto, imparato e compreso ancora di più quando il Re le avesse portate ancora più in alto, e che attraverso i libri non si arriva alla verità, se non grazie a una propria maturazione e allo sviluppo di una vera comprensione.

Grazia Celeste ripercorre il percorso con il pensiero e giunge alle sue conclusioni: accettare con gioia il viaggio senza sottrarsi a nulla, ma deponendo sull’altare la propria volontà; sopportare i nemici senza amarezza e rancore in qualità di ancella Sopportazione-con-Amore, così da ricavare il bene dal male; accorgersi di essere sempre stata portata più in alto di quanto credesse di trovarsi e di voler trattare gli altri allo stesso modo; ogni cosa della vita, anche la più brutta, può essere trasformata rispondendo alla volontà di Dio con amore, perdono e obbedienza, superando il male con il bene.

Giunti a Dio, è possibile scendere nella Valle del mondo accettando con gioia e sopportando con amore. Dalle Alte Vette, Grazia Celeste osserva la Vallata dell’Umiliazione: vede i suoi nemici come esseri infelici tormentati dai peccati, come era stata lei, e prova un senso di compassione e un desiderio che possano essere liberati e guariti. Ormai parte di una cascata dalle molte acque, Grazia Celeste prova l’estatica gioia che la conduce a scendere ancora più giù, gettandosi nell’abbandono della donazione dell’Amore.

CONCLUSIONI – LA VIA VERSO LA LIBERTA’

“Uscì dalla caverna in una notte di luna nuova.
Il cielo era limpido, e poteva vedere milioni di stelle.
Poi accadde qualcosa dentro di lui che trasformò la sua vita per sempre.
Si guardò le mani, percepì il suo corpo, e sentì la sua voce dire,
“Sono fatto di luce; sono fatto di stelle.”

Don Miguel Ruiz, I Quattro Accordi

Tra il 380 e il 370 a.C. Platone (La Repubblica libro VII, traduzione di Franco Sartori) scrive un dialogo tra Socrate e Glaucone, dove Socrate immagina dei prigionieri da sempre incatenati all’interno di una caverna con l’entrata aperta, che possono fissare soltanto una parete. Dietro di loro corre una strada rialzata, dietro la quale arde un grande fuoco. Lungo il muro eretto sulla strada, un gruppo di uomini porta degli oggetti, le cui ombre appaiono sulla parete della caverna. I prigionieri considerano reali queste ombre che sono fisse, parlano o si muovono, in quanto, non essendo mai usciti dalla caverna, non conoscono nessun’altra realtà. Quando uno di loro si libera, esce fuori e rimane accecato dalla luce del sole, per cui inizialmente fa fatica a credere come reale il mondo al di fuori delle solite ombre. Abituatisi alla nuova situazione, i suoi occhi sono dapprima in grado di contemplare il riflesso degli oggetti sull’acqua, poi piano piano si abituano alla notte e contemplano le stelle del cielo. Alla fine sono in grado di vedere il sole e i riflessi degli oggetti e degli uomini sull’acqua. Così l’uomo libero comprende che è la luce del sole a muovere gli anni, le stagioni, il mondo e a essere la causa di tutto ciò che è visibile, e vuole liberare i suoi compagni rimasti nella caverna. Ora il problema più grande è riabituarsi al buio, sopportare lo scherno dei prigionieri per aver avuto il coraggio di uscire alla luce del sole, e riuscire a convincere gli altri a liberarsi dalle catene, correndo il rischio di essere ucciso.

Nel mito della caverna, Platone descrive la via percorsa da Socrate verso la verità e la sua morte per mano degli uomini che non vogliono ascoltarlo, ma preferiscono rimanere incatenati nel mondo delle illusioni. Più in generale, con questa allegoria Platone presenta la sua teoria della conoscenza, nella quale il sole è l’idea del Bene, cioè la fonte della vera conoscenza, l’interno della caverna è il mondo della percezione e dell’illusione in cui vivono gli uomini comuni, l’esterno è il mondo della ragione, dell’intellezione e della filosofia. Per Platone però conoscere il Bene significa anche praticarlo: il filosofo, ovvero l’uomo libero che è riuscito a contemplare la verità del mondo delle idee, non riesce più a tornare nel mondo delle illusioni, quindi, a rischio della propria vita, si rifà strada nella caverna per sciogliere le catene degli uomini ed elevarli al mondo dell’intelligibile.

Come Platone, Don Miguel Ruiz ne I Quattro Accordi (The Four Agreements, ed. Amber-Allen Publishing, 1997) descrive il percorso di libertà personale che possiamo scegliere di seguire per spezzare autonomamente le catene dell’illusione. È un libro illuminante che racchiude la saggezza dei Toltechi, un popolo nativo americano stanziato nel Messico centrale tra il 10° e il 12° secolo, uno scritto che ho avuto il privilegio di leggere su raccomandazione dei miei life coach.

Racconta Don Ruiz: una volta uscito dalla caverna, l’uomo divenne consapevole di essere fatto di luce e di stelle. Comprese che era la luce a creare le stelle e non il contrario e che tutto ciò che esiste è parte di quella luce, di quell’unico essere vivente creatore della vita. Comprese quindi di non essere le stelle, ma di far parte di quello spazio che lo separava da esse, cioè la vita. Una vita che aveva le caratteristiche della varietà, dell’abbondanza, della ricchezza di infinite possibilità. Erano le possibilità di manifestare i desideri nella realtà, connettendosi con la forza dell’assoluto, dell’energia creatrice dell’universo. Non a caso la parola “desiderio” deriva dal latino de-siderium e significa “mancanza delle stelle”. In questo senso l’uomo è il creatore della realtà e la base della sua vita è la libertà totale.

I sogni dell’infanzia ci hanno insegnato che possiamo creare noi il nostro mondo, ma nell’età adulta ci siamo imposti la visione altrui sulla nostra vita, rinunciando alla nostra completa e assoluta libertà creatrice. Il mondo di illusioni nel quale viviamo è soltanto fumo che non ci lascia intravedere la nostra vera essenza, che è pura luce e puro amore. Ci siamo abituati a vivere una vita con gli occhi chiusi all’interno di un sogno privo della consapevolezza di sé: il Sogno degli uomini.

In seguito, la saggezza della nostra infanzia è stata completamente cancellata quando siamo stati abituati, senza poter scegliere, ad accettare le regole sociali e a vivere il Sogno della società. Abbiamo immagazzinato tutte le informazioni e le sovrastrutture che ci sono state imposte, ci siamo fidati, ci abbiamo creduto e siamo stati addomesticati. Abbiamo imparato come vivere e come sognare. Per ottenere una ricompensa dal nostro comportamento, abbiamo capito come piacere agli altri e come catturare la loro attenzione. La paura della punizione e del rifiuto deriva dalla nostra paura di non essere bravi abbastanza a corrispondere alla copia delle credenze altrui.

Nell’impeto adolescenziale verso la libertà, abbiamo imparato a ribellarci, ma non abbiamo avuto il coraggio di spezzare completamente quelle catene. Così da adulti siamo diventati i nostri addomesticatori. Abbiamo scelto la via più semplice per vivere, la via del conformismo e del rispetto delle regole per paura. È la paura di aprire le nostre ferite emotive, un veleno emozionale che ci rende insicuri quando andiamo contro le regole, anche se abbiamo ragione, piuttosto che assumerci il coraggio di diventare ed esprimere ciò che realmente siamo.

Il mondo della materia che la coscienza collettiva ha creato è il regno della paura, che ci costringe ad anelare a tutto ciò che ci manca: la verità, la bellezza, la giustizia… Tutto questo è già dentro di noi, ma non lo vediamo, perché siamo accecati dalle nostre false credenze, da tutto ciò che riteniamo vero di noi e del mondo. Abbiamo stipulato degli accordi con noi stessi per costruire la nostra personalità, definendo anche i limiti di ciò che è possibile e di ciò che è impossibile. Abbiamo imparato a indossare le maschere per nascondere i volti, affinché gli altri non si accorgessero della nostra imperfezione. Abbiamo imparato a rifiutare noi stessi perché non siamo in grado di essere ciò che fingiamo di essere. Abbiamo imparato a giudicarci e a giudicare, ad abusare di noi e degli altri. Il nostro bisogno di essere amati non coincide con l’amore che abbiamo per noi stessi.

Nella vita di tutti i giorni, noi siamo e diventiamo tutto ciò a cui diciamo di sì: il nostro subconscio è un pilota automatico che corrisponde al nostro sì abituale. La nostra mente vede ciò che vuole, coglie solo ciò che è pronta a ricevere nel momento presente, crea ciò che vede e pensa, e la quasi totalità dei nostri pensieri è una ripetizione di quelli di ieri.

Per evolvere dobbiamo imparare ad abbattere la resistenza, a ridefinire i nostri desideri e le nostre convinzioni, a creare una visione del nostro futuro sé e a pianificare i piccoli passi per corrispondere a quella nuova visione. L’impegno verso il Bene (per riprendere Platone) o è totale o è inesistente, non ci sono mezze misure. Sono le situazioni fuori dall’ordinario a provocare uno sconvolgimento emotivo che de-atrofizza l’abitudine. Per cercarle e affrontarle, serve il coraggio e la volontà di provare, di fallire e di diventare emotivamente flessibili. Significa espandere sempre di più la nostra zona di comfort e imparare a “stare comodi con ciò che è scomodo”. Significa vivere ad occhi aperti, abbandonando la paura di vivere e di essere autentici, riprendendo consapevolezza di noi stessi e del fatto che siamo coscienza eterna. È una lenta e dura scalata di una ripida montagna, che ha come ricompensa la vista mozzafiato dall’alto della cima.

La via verso la libertà è una via di consapevolezza, di trasformazione e di intenzione, che conduce all’Amore universale.

Per raggiungere la cima della montagna, dobbiamo prima imparare a liberarci degli accordi basati sulla paura che abbiamo fatto con noi stessi. Se ci accorgiamo che non ci piace il nostro Sogno, vuol dire che sono quegli accordi e quelle credenze autolimitanti a dominare la nostra vita.

Come insegna Don Ruiz, l’impegno a interrompere il circolo vizioso della paura e a trasformare completamente la nostra realtà è legato a quattro accordi che dovremmo fare con noi stessi per eliminare l’influenza di tutti gli altri.

Il primo accordo è essere impeccabili con la parola. Vuol dire parlare con integrità, perché le parole determinano le azioni, le azioni determinano le abitudini, le abitudini determinano il carattere, il carattere determina il destino. Vuol dire assumerci la responsabilità per noi stessi e per gli altri, usando soltanto le parole che corrispondono alle nostre intenzioni, senza andare contro noi stessi o gli altri. Vuol dire rivolgere le parole nella direzione della verità e dell’amore.

Il secondo accordo è non prendere nulla sul personale, ovvero avere un forte senso di sé, senza proiettare egoisticamente il proprio Io sugli altri. Vuol dire essere immuni alle opinioni e alle azioni altrui: ciò che le persone pensano e dicono è solo una proiezione della loro realtà e dei loro sogni; nulla di ciò che gli altri fanno dipende da noi.

Il terzo accordo è non fare supposizioni, ma fare domande, dire solo ciò che si vuole dire e rendere chiara la comunicazione evitando incomprensioni, drammi e inutili sentimenti negativi.

Il quarto accordo è fare sempre del nostro meglio nella vita quotidiana e amare ciò che facciamo senza ricercare il perfezionismo o eccedere fino al punto in cui le azioni che compiamo non ci rendono più felici.

La missione di un essere libero e autentico è imparare a diventare un Guerriero, non un soldato. Mentre la disciplina di un soldato viene dal rispetto delle regole esterne, la disciplina di un guerriero è legata alla consapevolezza e al controllo delle proprie emozioni. Ciò non vuol dire reprimerle (stato di Vittima), bensì essere capace di astenervisi, di trattenerle e di esprimerle nel momento giusto, né prima, né dopo. Il Guerriero è impeccabile perché sa usare la spada della parola e ha pieno controllo sulle proprie emozioni e sul proprio comportamento.

Un Guerriero non è una vittima, ma è un essere autentico capace di assumersi piena responsabilità di ciò che accade nella sua vita; è consapevole che tutto è possibile nel momento presente e che il domani non è garantito; stipula un contratto con sé stesso in linea con la sua visione, sceglie le parole e fa seguire loro le azioni; non si lascia ostacolare dai meccanismi di realizzazione dei suoi desideri, ma punta all’intenzione, spinto dal senso di urgenza; agisce mettendo da parte giudizi e blocchi emotivi e non si lascia frenare dalle sue strategie di sopravvivenza; non gioca mai contro di sé o contro gli altri, ma è consapevole che un esercito vince la guerra se sono tutti a vincere.

Nel mio percorso di consapevolezza e liberazione, il contratto che ho stipulato con me stessa è “autenticità, fiducia e coraggio” e l’arma che ho scelto per uscire dalla caverna è il senso di urgenza di chi ha fatto suo l’insegnamento che la vita è adesso.

Così come Ulisse, Circe, Walter Bonatti, Ayn Rand, Victor Hugo, Giorgio Rosa, e tutte le grandi personalità del mondo della realtà e della fantasia che sono riusciti a cambiare la loro vita e la storia degli uomini, non ci resta altro che la scelta di essere presenti ora per essere vivi e cogliere le innumerevoli possibilità che l’universo ci offre per rendere reale il nostro Sogno.

Alisa Relli

RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento particolare va alla mia famiglia e agli amici che mi sono stati vicini nei momenti di incertezza, incoraggiandomi a credere in me stessa e a non mollare mai di fronte alle difficoltà.

Grazie anche ad Alara, Amanda, Anastasia, Beth, Boğaç, David, Dawn, Dianne, Ekaterina, Erin, Evrim, Gaultier, Giorgia, Karim, Kris, Laurens, Linda, Mark, Simone, Vera e Volkan per il loro prezioso e immancabile supporto in questo mio percorso trasformazionale. Ognuno di loro è stato per me un’inesauribile fonte di ispirazione.

Halloween o Samhain, il capodanno celtico

La festa di Halloween è una tradizione antichissima di origini celtiche, che fu portata in America nell’Ottocento dagli emigranti irlandesi dopo che la loro isola fu colpita dalla carestia.

La parola Halloween (in irlandese Hallow E’en) è la forma contratta di All Hallows’ Eve, ovvero “vigilia di tutti i Santi”. L’importanza attribuita alla vigilia del giorno di Ognissanti deriva dalla cosmologia celtica e da una concezione del tempo presente anche negli altri paesi anglofoni, dove varie feste sono accompagnate dalla parole Eve (Christmas Eve ovvero la vigilia di Natale cioè la notte di Natale; New Year’s Eve ovvero la vigilia del nuovo anno cioè il capodanno). Secondo i Celti il tempo era un cerchio suddiviso in cicli e la fine di ciascun ciclo era carica di magia:

  • 31 ottobre Samhain
  • 21 dicembre Yule
  • 1-2 febbraio Imbolc
  • 21 marzo Ostara
  • 30 aprile/1 maggio Beltane
  • 21 giugno Litha
  • 1 agosto Lughnasadh
  • 21 settembre Mabon

I Celti erano un popolo di pastori che a fine estate riportavano a valle le greggi per prepararsi all’arrivo dell’inverno. Per i Celti l’anno nuovo iniziava il 1° novembre e coincideva con l’inizio della stagione fredda e le serate trascorse in casa a raccontare storie e leggende davanti al camino.

Il capodanno celtico si chiamava Samhain (pronuncia sow-in), parola derivata dal gaelico samhuinn (“summer’s end” ovvero fine dell’estate); in Irlanda si chiamava Samhein o La Salmon, ovvero la festa del Sole.

Il tema principale della festa era la morte, intesa sia come morte (e rinnovamento) della natura sia come culto dei morti. I celti credevano che ogni anno il 31 ottobre Samhain chiamasse a sé gli spiriti dei morti per vagare sulla Terra e unirsi al mondo dei vivi.

Lo Samhain si festeggiava per riunire la comunità ed esorcizzare l’arrivo dei pericoli dell’inverno attraverso un rito di passaggio che propiziasse la benevolenza degli dei. Durante la notte le comunità celtiche si radunavano nei boschi e sulle colline per accendere il fuoco sacro e fare sacrifici animali. Dopodiché tornavano ai villaggi vestiti da animali e facendosi luce con cipolle intagliate contenenti le braci del fuoco sacro. Così in Irlanda si diffuse la tradizione di accendere torce e fiaccole e di lasciarle fuori dalla porta di casa insieme a cibo e latte per le anime dei defunti.

Con le conquiste romane, i Celti vennero a contatto con i cristiani e le Isole Britanniche furono evangelizzate. La Chiesa non sradicò completamente le antiche tradizioni e al posto dello Samhain istituì il giorno di Ognissanti il 1° novembre e il giorno dei defunti il 2 novembre.

Queste canzoni dai toni morbidi e melanconici rievocano le atmosfere magiche e surreali dei paesaggi autunnali brulli, immersi nella nebbia, e avvolti dall’odore di fumo dei camini accesi: