
Traduzione dall’inglese del capitolo 10 “Introduction to Ninety-Three” di The Romantic Manifesto di Ayn Rand (1969, edizione rivista 1975).
Vi siete mai chiesti cosa avessero provato, quei primi uomini del Rinascimento, quando (emergendo dal lungo incubo del Medioevo, e non avendo visto nient’altro che i gargoyle e i mostri deformi dell’arte medievale quali unici riflessi dell’anima umana) diedero al mondo uno sguardo nuovo, libero, aperto, e riscoprirono le statue degli dei greci, dimenticati sotto cumuli di macerie? Se ve lo siete chiesto, è quella l’irripetibile esperienza emotiva che vivete quando riscoprite i romanzi di Victor Hugo.
La distanza tra il suo e il nostro mondo è incredibilmente breve (lui morì nel 1885), ma la distanza tra il suo e il nostro universo si misura in anni luce sul piano dell’estetica. È quasi sconosciuto al pubblico americano, se non fosse per qualche vandalizzato rimasuglio sui nostri schermi cinematografici. Le sue opere vengono raramente trattate nei corsi di letteratura delle nostre università. È sepolto sotto i detriti estetici della nostra epoca, mentre i gargoyle continuano a fissarci, non dalle guglie delle cattedrali, ma dalle pagine di romanzi privi di forma, di sostanza, e di struttura, che raccontano di tossicodipendenti, barboni, assassini, dipsomani e psicotici. È invisibile agli occhi dei neobarbari della nostra epoca, così come lo era l’arte di Roma agli occhi dei loro antenati spirituali, e per le stesse ragioni. Ma Victor Hugo è il più grande romanziere della letteratura mondiale…
La letteratura romantica è nata solo nell’Ottocento, quando la vita umana era politicamente più libera che negli altri periodi della storia, e quando la cultura occidentale rifletteva principalmente l’influenza di Aristotele: la convinzione che la mente dell’uomo è capace di affrontare la realtà. Le idee dei romantici erano dichiaratamente distanti da quelle degli aristotelici, ma il loro senso della vita era l’erede di quella forza liberatrice. L’Ottocento vide sia la nascita sia il culmine di una fila illustre di grandi scrittori romantici.
E il più grande tra questi fu Victor Hugo…
I lettori moderni, soprattutto i giovani, che sono cresciuti con il genere di letteratura che fa sembrare Zola un romantico al confronto, andrebbero avvertiti che un primo incontro con Hugo potrebbe essere sconvolgente per loro: è come emergere da un sotterraneo torbido, pieno dei lamenti di purulenti corpi semivivi, verso un’accecante esplosione di luce. Quindi, volendo fornire un kit di emergenza intellettuale, suggerirei quanto segue.
Non cercate dei punti di riferimento familiari, non li troverete: non state entrando nel giardino dei “vicini di casa”, bensì in un universo del quale non conoscevate l’esistenza.
Non cercate “i vicini di casa”: state per conoscere una razza di giganti, che avrebbero potuto e avrebbero dovuto essere i vostri vicini.
Non dite che questi giganti sono “surreali” solo perché non li avete mai incontrati prima, controllate la vostra vista, non quella di Hugo, e le vostre premesse, non le sue; non era compito suo farvi vedere ciò che avevate già visto migliaia di volte.
Non dite che le azioni di questi giganti sono “impossibili” solo perché sono eroiche, nobili, intelligenti, belle: ricordate che la vigliaccheria, la perversione, l’irrazionalità, la bruttezza non sono le sole alternative possibili all’uomo.
Non dite che questo nuovo universo splendente è una “fuga”: assisterete a battaglie più dure, più difficili, più tragiche di quelle che avete visto nelle sale da biliardo agli angoli delle strade. L’unica differenza è questa: queste battaglie non si combattono per quattro soldi.
Non dite che “la vita non è così”; chiedetevi: la vita di chi?
Questo avvertimento è reso necessario dal fatto che la disintegrazione filosofica e culturale della nostra epoca, che sta sminuendo l’intelletto umano verso la prospettiva concreta e dell’immediato di un selvaggio, ha portato la letteratura a un livello nel quale il concetto di “universalità astratta” ora viene usato con il significato di “maggioranza statistica”. Affrontare Hugo con un bagaglio intellettuale e un criterio del genere non è soltanto inutile. Criticare Hugo per il fatto che i suoi romanzi non affrontano i luoghi comuni quotidiani delle vite mediocri è come criticare un chirurgo perché non trascorre il tempo a pelare patate. Considerare un fallimento di Hugo il fatto che i suoi personaggi sono “fuori dal comune” è come considerare il fallimento di un aeroplano tale per il fatto che vola.
Ma per quei lettori che non capiscono il motivo per il quale il genere di persone che li annoiano a morte o verso le quali provano disgusto nella “vita reale” dovrebbero detenere il monopolio sul ruolo dei soggetti letterari, per quei lettori sempre più numerosi che disertano la letteratura “seria” e cercano l’ultimo bagliore di Romanticismo nei romanzi gialli, Hugo è il nuovo continente che hanno sempre sognato di scoprire.
Novantatré (Quatrevingt-treize) è l’ultimo romanzo e uno dei migliori romanzi di Hugo. È un’eccellente introduzione alle sue opere: presenta (nella storia, nello stile, e nello spirito) la vera essenza di tutto ciò che è tipico di Hugo.
Il contesto del romanzo è la Rivoluzione francese: “Novantatré” sta per 1793, l’anno del terrore, il momento culminante della Rivoluzione. Gli eventi della storia avvengono durante la guerra civile della Vandea (una rivolta di contadini monarchici della Bretagna, guidata dagli aristocratici che ritornavano dall’esilio, nel disperato tentativo di restaurare la monarchia), una guerra civile caratterizzata da una crudeltà selvaggia da entrambe le parti.
Moltissime cose irrilevanti sono state dette e scritte su questo romanzo. Nell’anno della sua pubblicazione, il 1874, non fu accolto favorevolmente né dall’enorme pubblico di Hugo né dalla critica. La spiegazione che gli storici della letteratura fornivano di frequente è che il pubblico francese non apprezzava un romanzo che sembrava esaltare la Rivoluzione francese, in un’epoca nella quale il sangue e l’orrore recenti della Comune di Parigi del 1871 erano ancora freschi nella memoria del pubblico. Due moderni biografi di Hugo parlano del romanzo nei seguenti termini: Matthew Josephson, in Victor Hugo, lo menziona con disapprovazione definendolo un “romanzo storico” con “personaggi idealizzati”; André Maurois, in Olympio ou la vie de Victor Hugo, elenca una serie di legami personali dell’autore con l’ambientazione della storia (per esempio il fatto che il padre di Hugo combatté in Vandea, dalla parte repubblicana), poi afferma: “Il dialogo [del romanzo] è teatrale. Ma la Rivoluzione francese era stata teatrale e drammatica. I suoi eroi avevano assunto delle pose sublimi e le avevano mantenute fino alla morte.” (il che è un approccio puramente naturalistico o un tentativo di giustificazione).
Il punto è che Novantatré non è un romanzo sulla Rivoluzione francese.
Per un romantico, un contesto è un contesto, non è un tema. La sua visione è sempre incentrata sull’uomo, sugli aspetti fondamentali della natura umana, su quei problemi e quegli aspetti del suo carattere che sono validi in qualsiasi epoca e paese. Il tema di Novantatré, che è rappresentato con variazioni brillantemente inaspettate di tutti i principali avvenimenti della storia, e che è la forza motrice di tutti i personaggi e gli eventi, poiché li integra in un’inevitabile progressione verso un magnifico momento culminante, è la fedeltà dell’uomo ai suoi valori.
Per rappresentare questo tema, per isolare questo aspetto dell’anima umana e mostrarlo nella sua forma più pura, per metterlo alla prova sotto la pressione di conflitti cruenti, una rivoluzione è una scelta di contesto appropriata. La storia di Hugo non è concepita come mezzo per presentare la Rivoluzione francese; la Rivoluzione francese è usata come mezzo per presentare la sua storia.
In questo caso non è uno specifico codice di valori a interessarlo, bensì l’astrazione in senso più ampio: la fedeltà dell’uomo ai valori, a prescindere dal genere particolare di valori di un uomo. Sebbene la sua personale simpatia sia ovviamente rivolta alla parte repubblicana, Hugo presenta i suoi personaggi con distacco impersonale, o piuttosto con un’ammirazione imparziale ugualmente garantita a entrambe le parti del conflitto. Quanto a grandezza spirituale, integrità intransigente, coraggio incrollabile e dedizione implacabile alla sua causa, il vecchio Marchese de Lantenac, il leader dei monarchici, è sullo stesso piano di Cimourdain, l’ex prete che è diventato il leader dei repubblicani. (E, forse, Lantenac è il superiore di Cimourdain, per quanto attiene al colore e alla forza della sua caratterizzazione.) La simpatia di Hugo per l’allegra e chiassosa esuberanza dei soldati repubblicani va di pari passo con la simpatia per la spietata e disperata caparbietà dei contadini monarchici. L’enfasi del progetto non è posta su: “Per quali grandi valori combattono gli uomini!”, ma “Di quale grandezza sono capaci gli uomini, quando lottano per i propri valori!”.
L’inesauribile fantasia di Hugo raggiunge l’apice in un aspetto estremamente difficile del compito di un romanziere: l’integrazione di un tema astratto con la trama di una narrazione. Mentre gli eventi di Novantatré sono un travolgente torrente emotivo diretto dall’inesorabile logica della struttura della trama, ciascun evento caratterizza il tema, ciascun evento è esempio di una dedizione ai valori violenta, tormentata, sofferta, ma trionfante. Questa è la catena invisibile, il corollario della trama, che unisce scene come: la giovane madre stracciona e trasandata che, barcollando ciecamente e con selvaggia perseveranza per villaggi in fiamme e campi distrutti, cerca disperatamente il figlio che ha perduto nel caos della guerra civile; il mendicante che accoglie il suo ex signore feudale in una grotta sotto le radici di un albero; l’umile marinaio che deve compiere una scelta, consapevole, per poche brevi ore, in una barca a remi nell’oscurità della notte, di avere tra le mani il destino della monarchia; la figura alta e dignitosa di un uomo in abiti da contadino e portamento da aristocratico che solleva lo sguardo dalle profondità di un dirupo verso il lontano riflesso di un fuoco e si trova di fronte a una terribile alternativa; il giovane rivoluzionario, che corre avanti e indietro nell’oscurità davanti al varco di una torre che crolla, combattuto tra il tradimento della causa che ha servito per tutta la vita e la voce di una più alta devozione; il volto sbiancato di un uomo che si alza per pronunciare la sentenza di un tribunale rivoluzionario, mentre la folla attende in immobile silenzio di sapere se risparmierà la vita o condannerà a morte l’unico uomo che abbia mai amato.
L’esempio migliore della forza dell’integrazione drammatica è una scena indimenticabile che soltanto Hugo avrebbe potuto scrivere, una scena nella quale la straziante intensità e la suspense di uno sviluppo complesso di eventi si risolvono e si superano grazie a due semplici righe di dialogo: “Je t’arrête.” – “Je t’approuve.” (“Ti arresto.” – “Hai ragione.”). Il lettore dovrà giungere a queste righe considerandole nel loro intero contesto per scoprire chi le pronuncia e quale enorme significato psicologico e grandezza l’autore faccia loro trasmettere.
“Grandezza” è la parola che definisce il motivo ricorrente di Novantatré e di tutti i romanzi di Hugo, nonché del suo senso della vita. E forse il conflitto più tragico non è nei suoi romanzi, ma nel loro autore. Pur avendo una visione così magnifica dell’uomo e dell’esistenza, Hugo non scoprì mai come attuarla nella realtà. Professava coscientemente un credo che contraddiceva il suo ideale inconscio, rendendone impossibile la realizzazione.
Non tradusse mai il suo senso della vita in termini concettuali, non si chiedeva quali idee, premesse o condizioni psicologiche fossero necessarie per permettere agli uomini di raggiungere la levatura spirituale dei suoi eroi. Il suo atteggiamento verso l’intelletto era fortemente ambiguo. È come se Hugo l’artista avesse superato Hugo il pensatore; come se una grande mente non avesse mai operato una distinzione tra il processo di creazione artistica e il processo di conoscenza razionale (due metodi diversi di usare la coscienza, che non devono necessariamente essere in conflitto tra di loro, ma che non sono la stessa cosa); come se il pensiero consistesse di immagini, nel suo lavoro e nella sua vita; come se pensasse per metafore, non per concetti, per metafore che rappresentavano complessità emotive enormi, come simboli affrettati e mere approssimazioni. È come se le grandi astrazioni emotive delle quali si serviva come artista lo rendessero troppo impaziente per poter definire con rigore e identificare ciò che lui avvertiva e non ciò che sapeva, e quindi ricorreva alle teorie esistenti che sembravano connotare, piuttosto che denotare, i suoi valori.
Verso la conclusione di Novantatré, Hugo l’artista illustra due possibilità sommamente drammatiche che i suoi personaggi avevano per esprimere le loro idee, per dichiarare le ragioni intellettuali della loro posizione: una, una scena con Lantenac e Gauvain, nella quale il vecchio monarchico dovrebbe sfidare il giovane rivoluzionario con un’appassionata difesa della monarchia; l’altra, con Cimourdain e Gauvain, nella quale i due personaggi si dovrebbero scontrare come portavoci di due aspetti diversi dello spirito rivoluzionario. Dico “dovrebbero”, perché Hugo il pensatore non era in grado di farlo: le battute dei personaggi non sono espressioni di idee, ma solo retorica, metafore e discorsi generici. Il suo fuoco, la sua eloquenza, la sua forza emotiva sembravano abbandonarlo quando doveva affrontare argomenti teorici.
Hugo il pensatore era l’archetipo delle virtù e degli errori fatali dell’Ottocento. Credeva in un progresso umano illimitato e automatico. Credeva che l’ignoranza e la povertà fossero le uniche cause della malvagità umana. Avvertendo una benevolenza enorme e incoerente, desiderava con impazienza abolire ogni forma di sofferenza umana e dichiarava i fini senza pensare ai mezzi: voleva abolire la povertà senza avere idea di quale fosse la fonte della ricchezza; voleva che le persone fossero libere senza avere idea di ciò che fosse necessario per garantire la libertà politica; voleva stabilire la fratellanza universale, senza avere idea che non si potessero stabilire con la violenza e il terrore.
Dava la ragione per scontata e non vedeva la disastrosa contraddizione insita nel tentativo di combinarla con la fede, nonostante la sua particolare forma di misticismo non fosse la spregevole variante orientale, bensì fosse più vicina alle orgogliose leggende dei greci, e il suo dio fosse simbolo della perfezione umana, che lui adorava con una certa arrogante fiducia, quasi come fosse un pari o un amico.
Le teorie con le quali Hugo il pensatore cercava di attuarla non appartenevano all’universo di Hugo l’artista. Quando e nel momento in cui vengono messe in pratica, ottengono l’opposto di quei valori che lui conosceva soltanto come senso della vita. Hugo l’artista pagò per questa letale contraddizione. Sebbene nessun altro artista avesse mai proiettato un universo così profondamente gioioso come il suo, c’è un cupo tratto di tragedia in tutte le sue opere. La maggior parte dei suoi romanzi ha un epilogo tragico, come se non fosse in grado di concretizzare la forma con la quale i suoi eroi possano trionfare sulla terra, e fosse capace solo di farli morire in battaglia, con un’integrità di spirito intatta come unica rivendicazione della loro devozione alla vita; come se, per lui, fosse la terra, e non il cielo, a rappresentare l’oggetto del desiderio, che lui non poteva mai raggiungere o conquistare appieno.
Tale era la natura del suo conflitto: un mistico dichiarato nelle sue convinzioni conscie, che era profondamente innamorato di questa terra; un altruista dichiarato, che venerava la grandezza dell’uomo, non le sue sofferenze, debolezze o cattiverie; un dichiarato sostenitore del socialismo, che era un individualista ferocemente intransigente; un dichiarato campione della dottrina secondo la quale le emozioni sono superiori alla ragione, che raggiunse la grandezza dei suoi personaggi rendendoli tutti superbamente consci, pienamente consapevoli delle loro motivazioni e dei loro desideri, del tutto concentrati sulla realtà e capaci di agire di conseguenza, dalla madre contadina in Novantatré a Jean Valjean in Les Misérables. Ed è questo il segreto della loro peculiare purezza, è questo che dà a un mendicante la levatura di un gigante, questa assenza di irrazionalità cieca e di deriva stordita e confusa; questo è l’elemento caratteristico di tutti i personaggi di Hugo; è il tratto distintivo dell’autostima umana.
A quale scuola politico-filosofica appartiene Victor Hugo? Non è un caso che nella nostra epoca, in una cultura dominata dal collettivismo altruista, non sia il preferito di coloro i quali serbano i presunti ideali che lui presumibilmente condivideva.
Io ho scoperto Victor Hugo quando avevo tredici anni, nell’asfissiante e squallida bruttezza della Russia sovietica. Si dovrebbe aver vissuto su un pianeta pestilenziale per poter comprendere appieno ciò che i suoi romanzi, e il suo radioso universo, significassero per me allora, e ciò che significhino per me adesso. E il fatto che io stia scrivendo l’introduzione a uno dei suoi romanzi per presentarlo al pubblico americano ha per me il senso di quel genere di dramma che lui avrebbe approvato e compreso. Mi ha permesso di essere qui e di essere una scrittrice. Se riuscirò ad aiutare un altro giovane lettore a trovare quello che io ho trovato nelle sue opere, se riuscirò ad avvicinare ai romanzi di Victor Hugo anche solo una fetta del pubblico che merita, per me vorrà dire aver pagato un debito incalcolabile che non potrà mai essere calcolato né ripagato.