Azione umana, diritto, linguaggio
Nel 1949 l’economista Ludwig von Mises codificò la prasseologia come scienza dell’azione umana, procedendo per assiomi (postulati indimostrabili ma incontestabili): l’azione umana è un fondamento in quanto è impossibile non agire; qualsiasi tipo di interazione dell’uomo con l’ambiente è un’azione e un tentativo di modificare la realtà esterna con lo scopo di raggiungere uno stato finale preferibile.
Se la catallassi è l’azione economica, il diritto è l’azione umana finalizzata a regolamentare la violenza stabilendo quando essa è consentita e quando no, ovvero è un’azione verbale volta a regolamentare e a indirizzare le azioni altrui mediante la minaccia o l’applicazione della violenza.
Il diritto è necessariamente una funzione del linguaggio, in quanto si esprime con la comunicazione verbale.
Il linguaggio è espressione del pensiero e della coscienza. Il pensiero è un assioma, una condizione umana insopprimibile la cui negazione comporta una contraddizione logica. Secondo lo psicologo Julian James, la mente umana funziona con la costituzione dell’autocoscienza, che è appropriazione razionale di se stessi e del proprio corpo. Le origini prasseologiche sono la proprietà di se stessi (l’Io) e la progressiva appropriazione di se stessi attraverso la coscienza (il pensiero).
Il linguaggio è la struttura del pensiero, un accordo sociale attraverso il quale l’uomo come società si appropria di sé e del mondo dando dei nomi agli oggetti della realtà e comunicando con gli altri.
La disputa sugli universali pone il problema del rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà e riguarda l’essere dei concetti generali, la definizione della natura e della fonte delle astrazioni, e la determinazione del rapporto tra i concetti e i dati percettivi. Varie scuole filosofiche hanno tentato di dare una soluzione al problema degli universali (si veda l’articolo “La soluzione oggettivista al problema degli universali”), giungendo a conclusioni molto diverse e di grande impatto anche su diverse visioni del diritto.
Giusnaturalismo e giuspositivismo
Due sono gli approcci per costituire le regole del diritto: il giusnaturalismo e il giuspositivismo.
In un sistema giusnaturalista, la legge è il limite non arbitrario al potere coercitivo, mentre in un sistema giuspositivista, è il potere coercitivo a limitare la legge.
Il giusnaturalismo deriva dal diritto romano e dai diritti barbarici, e si sviluppa in seguito sotto forma di diritto continentale e common law. Il diritto romano non aveva il compito di attenersi a norme prescrittive e non era il prodotto di una legislazione parlamentare come la conosciamo oggi. Basandosi sul principio “non nuocere a nessuno”, riconosceva e assegnava a ciascuno la proprietà privata ed era “l’arte del buono e dell’equo”. Era l’opera di giureconsulti chiamati da due o più parti in conflitto per risolvere e appianare una disputa, dove l’accordo raggiunto costituiva il precedente giudiziario al quale riferirsi in fattispecie analoghe. Era il diritto naturale nato con la cultura greca classica (ragione naturale e principi eterni), sviluppato dalle scuole giuridiche medievali e dalla tradizione giudaico-cristiana (razionalità umana e volontà di Dio, che creò l’uomo a sua immagine e somiglianza), ripreso nel dibattito nell’ambito del diritto sulla guerra, trattato da Thomas Hobbes e John Locke, e infine recuperato nel secondo dopoguerra.
Il giuspositivismo deriva dal diritto romano o Corpus iuris, che prevedeva che qualsiasi decisione dell’imperatore fosse legge. Da questo deriva l’assolutismo e in seguito il primato della legislazione nei moderni stati democratici, i cui ordinamenti giuridici si basano su un principio di effettività, ovvero funzionano per generale accettazione e correttezza procedurale. A seguito degli orrori dei regimi totalitari del Novecento, basati sulla legittimità costituzionale degli stessi e sull’esigenza di obbedire alle leggi, il giuspositivismo entra in crisi nel secondo dopoguerra, in quanto si avverte la necessità di stabilire un limite alla legge, rappresentata dalla tutela dei diritti umani fondamentali.
Nonostante questi tentativi, dagli anni Cinquanta il diritto continentale e il common law rimangono positivisti, in assenza di definizione di un’istanza superiore al diritto positivo capace di giudicarlo e di dichiararlo inefficace.
Diritto negativo e diritto positivo nella filosofia e nella storia
Secondo Aristotele, il diritto (dikaion, “giusto” o “diritto”) o l’oggetto della giustizia non va confuso con la morale. Il suo compito principale è quello di operare una sana distribuzione dei beni e delle cariche pubbliche tra i membri della collettività. È la virtù del “giusto mezzo”, la distribuzione in quantità moderata tra due sistemi opposti, o lo scambio di equivalenti (ventitré secoli dopo Marx avrebbe fatto lo stesso errore, tralasciando di considerare che è proprio la disparità di valore attribuito agli oggetti a determinarne lo scambio). Aristotele trae questa concezione del diritto dall’osservazione del linguaggio e della natura esterna all’uomo, che è un riflesso dell’esperienza. La concezione aristotelica del diritto si adattava molto bene al diritto romano applicato dai giureconsulti.
Diversamente da Aristotele, per Platone la giustizia non deve limitarsi a distribuire a ciascuno ciò che gli spetta, ma ha il compito di perseguire il bene. Secondo Platone, gli universali esistono come entità reali o archetipi perfetti ed eterni in un’altra dimensione della realtà; gli oggetti concreti che l’uomo percepisce evocano quelle astrazioni nella mente umana e ne sono i riflessi imperfetti. Individuando quindi le fonti del diritto nell’ideale e non nel mondo reale, Platone concepisce un ordinamento giuridico pesantemente normativo dal carattere utopico e strettamente legato alla morale, un diritto che in nome dell’armonia delle parti sacrifica l’individuo, legittimando poteri assoluti e dittatoriali come rimedio ai mali della società.
Cicerone fu influenzato da Platone e Aristotele. Tuttavia, se per Aristotele il lavoro del giurista consiste nel ricercare la giusta soluzione ai problemi giuridici, per Cicerone il giurista deve soltanto obbedire ai comandamenti della ragione o alle leggi che si pretendono dedotte dalla ragione, perciò il diritto finisce per identificarsi con le leggi. Qui cambia anche il concetto di natura: non è più una natura esterna all’uomo, bensì una “natura umana” intesa come una retta ragione che ci esorta ad adempiere ai nostri doveri, una ragione insita nell’animo umano, ma non nella stessa misura in tutti gli uomini.
Con l’Umanesimo si verificherà un apparente ritorno al concetto di diritto naturale e al diritto romano, in quanto quest’ultimo sarà recepito attraverso gli scritti di Cicerone.
Sant’Agostino influenzò molto la concezione del diritto nel Medioevo. Secondo Agostino, se noi conosciamo il vero, il bene, la giustizia solo grazie a Dio e non grazie all’esperienza sensibile, e se la verità, la giustizia sono Dio stesso, allora dobbiamo rinunciare al diritto naturale di Aristotele e dei giureconsulti romani.
La scuola francescana e i nominalisti appoggiarono la concezione agostiniana. Secondo Guglielmo di Ockham, gli universali esistono solo nella mente umana ma non nelle cose, sono parole dotate di un significato in quanto designano un’idea nel pensiero di una pluralità di individui di natura simile. Pertanto Guglielmo di Ockham nega l’esistenza delle categorie universali su cui si fonda il pensiero aristotelico, sostenendo che soltanto l’individuo è dotato di esistenza reale e può costituire l’oggetto autentico della nostra conoscenza. La prospettiva nominalistica nega quindi ogni esistenza reale alle entità astratte, ovvero concetti e idee, riducendole a meri segni linguistici; pertanto la giustizia non deve salvaguardare l’ordine naturale dando a ciascuno il suo, ma deve assicurare al singolo il godimento dei propri diritti individuali. Da questa concezione del diritto derivano i diritti soggettivi e la nozione di diritto viene fatta coincidere con quella di potere, per cui ogni diritto sarà specificato in base al contenuto del potere che legittimamente l’individuo potrà esercitare, purché sancito da una legge positiva, fonte del diritto. Guglielmo di Ockham pose le basi della nascita del positivismo giuridico.
Non così pensava San Tommaso d’Aquino, il quale predicò sia il ritorno alla dottrina del diritto naturale del “pagano” Aristotele sia il ricorso alle fonti “profane” per l’elaborazione del diritto. Secondo lui e gli altri realisti moderati, gli universali esistono nella realtà, ma soltanto negli oggetti concreti sotto forma di essenze metafisiche, e i concetti si riferiscono a queste essenze. Pertanto San Tommaso non riteneva le fonti rivelate adatte alla creazione del diritto, in quanto la loro funzione è soltanto istruire gli uomini nelle cose attinenti alla salvezza e non in quelle relative ai beni e alle questioni temporali.
A partire dal Basso Medioevo le esigenze commerciali determinarono lo sviluppo dello ius mercatorum da parte della classe mercantile, senza mediazione della politica. L’obiettivo era facilitare gli scambi commerciali, accordando preferenza al venditore-creditore piuttosto che al compratore nei contratti di compravendita e la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci per le obbligazioni sociali. Con l’aumento della responsabilità dei soci, l’interesse protetto era quello della classe di mercanti e della sicurezza dei traffici, al fine di accumulare maggiore ricchezza.
Il positivismo giuridico
Con la nascita e l’ampliamento delle funzioni dello Stato moderno si assiste al proliferare di una legislazione positiva. È interesse dello Stato favorire il commercio e l’industria per poter ricavare le risorse finanziarie necessarie al mantenimento dell’apparato burocratico. Finché le esigenze dello Stato e dei ceti produttivi si limitavano a proteggere i sudditi, a difendere i confini, e a tutelare la proprietà privata e i traffici commerciali, la legislazione è rimasta poco invasiva. Con l’avvento della democrazia e del suffragio universale gli Stati hanno adottato politiche di redistribuzione della ricchezza per ottenere consenso elettorale. È nato così il welfare state, anche nei paesi di common law, vera erede del diritto romano, e l’affermazione dei diritti soggettivi (pretese sul comportamento altrui) ha finito per degenerare in diritti particolari a vantaggio di precise categorie, concessi da uno stato “padre” che sa sempre cosa è meglio per ogni categoria sociale.
Il decisore finale ha il diritto e il potere di stabilire le regole ed esserne l’ultimo arbitro in base a un principio di legittimità che è puramente psicologico e irrazionale (la “servitù volontaria” di Étienne de la Boétie) in quanto deriva dalla convinzione dei “sudditi” che il “sovrano” deve fare le regole alle quali loro devono obbedire. L’istinto giuridico-normativo, in base al quale le norme sono utili per la sopravvivenza, si differenzia dall’istinto di conformità (obbedienza di gregge), ma entrambi si prestano a una degenerazione del rapporto tra legislatore e sudditi.
Prasseologia e principio di non aggressione
La legge di natura in senso prasseologico deve essere conforme alla definizione di essere umano come soggetto che agisce, che è proprietario di se stesso e che è posto in un sistema di interazioni sociali determinate dal linguaggio. La legge deve quindi essere in accordo con la natura umana e la proprieta di sé in un sistema sociale.
Il principio di non aggressione (non è consentito iniziare la violenza contro l’integrità fisica e la proprietà di un altro essere umano pacifico) è conforme alla natura umana e alla prasseologia, e insieme al diritto di proprietà e allo stato di diritto (principio di uguaglianza davanti alla legge) rappresenta il limite alla libertà in un sistema di ordine spontaneo basato sulla conoscenza distribuita e non centralizzata. Si tratta di quel sapere che si sviluppa spontaneamente e gradualmente, grazie allo spirito di ricerca (si veda l’articolo “Critical Theory versus metodo scientifico”) o alla creatività dell’uomo: è la conoscenza scientifica in senso lato (compresa quella giuridica) o la conoscenza imprenditoriale, che hanno sempre rappresentato il principale motore del progresso dell’umanità.